L’accordo sulla Brexit come modello per Turchia e Ucraina. È la prospettiva immaginata ieri dal ministro degli esteri Sigmar Gabriel per superare il blocco sulla piena integrazione dei due Paesi nell’Unione europea. «Dobbiamo pensare a forme alternative per una più stretta cooperazione», riassume l’ex leader Spd nell’intervista rilasciata alla Westdeutsche Allgemeine Zeitung, il più diffuso quotidiano locale tedesco.

Da qui il progetto di un’unione doganale che funga da anticamera del mercato comune, visto che «se possiamo raggiungere un accordo intelligente con il Regno Unito che governi le relazioni con l’Europa dopo la Brexit, allora il deal potrebbe diventare un campione da utilizzare per altre nazioni, come Turchia e Ucraina», sottolinea Gabriel. Ben consapevole che, allo stato attuale, insistere con la candidatura di Ankara e Kiev all’Ue è semplicemente «inimmaginabile».

Da un lato l’inclusione della Turchia è congelata dalla repressione del governo Erdogan che continua a «purgare» qualunque forma di dissidenza dal verbo del sultano. Dall’altro, Bruxelles chiede da tempo (finora inutilmente) all’Ucraina di avviare le riforme promesse in campo giudiziario ed economico, ma soprattutto nella lotta alla corruzione.

Al fardello si aggiunge la discriminazione seriale dei curdi perseguita dal regime di Ankara ora anche con la distruzione delle tombe, insieme alla guerra – altrettanto effettiva e permanente combattuta nel Donbass dal presidente ucraino Petro Poroshenko contro la «secessione» delle Repubbliche russofile di Donetsk e Luhansk.

Il ministro degli esteri tedesco Sigmar Gabriel (Foto: AP)
Il ministro degli esteri tedesco Sigmar Gabriel (Foto: AP)

 

Manca dunque la «stabilità» politica auspicata dall’Ue che interessa Bruxelles perfino più del rispetto dei diritti umani: la conditio sine qua non necessaria soprattutto a tranquillizzare il libero movimento di affari&finanza. Lo prova il riposizionamento di Gabriel, ora convinto del «forte desiderio della Turchia di raggiungere una migliore relazione con l’Europa».

Affermazione perlomeno singolare alla luce della detenzione illegale di decine di tedeschi più, meno o per niente coinvolti nel golpe militare del luglio 2016. Eppure, a sentire il ministro degli esteri, per Berlino «è un buon segno che molti nostri cittadini detenuti siano stati rilasciati, anche se permane la grande preoccupazione per il corrispondente di Die Welt Deniz Yücel». Non è più l’indignazione «di Stato» stampata per mesi sui principali organi d’informazione tedeschi, ma “solo” e appena un «timore» di carattere umanitario.

Tuttavia, nei corridoi dell’Auswärtige Amt (il dicastero degli affari esteri) non si nasconde come l’improvvisa apertura di Gabriel al regime di Erdogan corrisponda a una mossa di tattica diplomatica, più che a una vera e propria strategia politica.

Così la vera parola d’ordine a Berlino è ammorbidire: ovvero smussare gli spigoli che rallentano anzitutto il business di beni made in Germany comprendente, tra l’altro, immensi stock di armi e munizioni da guerra. Forse anche per questo il ministro Gabriel tiene a precisare che «i turchi sanno bene quanto sia importante il loro destino per noi».

Comunque, al di là della geometria «accesa» dal ministro tedesco, l’integrazione di Ankara e Kiev nello scacchiere euroccidentale è un dato di fatto. La base turca di Incirlik continua a essere la testa di ponte della Nato verso Russia, Iran e Siria, dopo che la minaccia dei comandi europei di abbandonare l’aeroporto si è rivelata promessa da marinaio.

E nel 2018 l’Ucraina avvierà il referendum per la piena adesione all’alleanza atlantica dopo aver già standardizzato i servizi segreti sulle linee-guida delle intelligence di Ue e Usa.