Dalla «maglietta rossa» di Adriano Panatta alla maglia viola ma soprattutto verdeoro di Sócrates. Mimmo Calopresti in questa fase della sua produzione artistica sta finalizzando la sua vocazione per il documentario militante a storie di sport che sono anche vicende dal forte valore politico e morale. Il regista calabrese ma torinese d’adozione si misura con un altro mito dello sport, il calciatore Sócrates Brasileiro Sampaio de Souza Vieira meglio noto come Sócrates (nato a Belém nel 1954 e morto a San Paolo nel 2011), ancora più estremo per il suo coerente percorso politico, per il suo carattere anarchico e ribelle, per le sue scelte di vita professionale e privata destabilizzanti per un ambiente come quello calcistico. Calopresti è un autore positivamente anomalo nel cinema italiano se non altro perché pur avendo girato solo cinque lungometraggi di fiction, si è fatto apprezzare dalla critica, dal pubblico e dai festival anche per la sua intensa e coerente attività di documentarista (tra lunghi e corti una ventina di documentari). Un cineasta militante che a partire dall’adesione giovanile a Lotta Continua e il lavoro per l’Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico, ha sempre imbracciato la macchina da presa per raccontare/denunciare il disagio e le difficoltà della classe operaia, le condizioni di lavoro alla Fiat, ma anche la vicenda della Thyssen Krupp, i sopravvissuti dell’Olocausto fino all’ultimo “Anch’io ero comunista” sul Partito Comunista delle origini. E lo ha fatto sempre col supporto di interviste ai protagonisti, di testimonianze, di racconti e ricordi personali.
E anche per la parabola del fantasioso centrocampista brasiliano sta ancora raccogliendo fondamentali brandelli sparsi della memoria calcistica collettiva. Una vicenda professionale, ma anche artistica, esistenziale e politica, un inno alla libertà contro le regole e le costrizioni di un mondo come quello calcistico sostanzialmente conservatore e conformista. E forse per quest’operazione Calopresti è ulteriormente stimolato dalla sua passione per il calcio in genere e dalla sua fede torinista. Gli è venuto quindi naturale muoversi su un asse mentale che lega l’epica storia del mitico Toro di Superga alle gesta di Sócrates, la tradizione un po’ anarcoide granata dal mitico Meroni a Claudio Sala fino all’ultimo Cerci alla vena contestatrice ed eccentrica del calciatore brasiliano smodato e sregolato fino alla morte.

Che cosa ti ha spinto ad affrontare la figura di Sócrates?

Intanto sono sempre stato affascinato dall’irregolarità e dalla stravaganza del calciatore e poi dalla sua formazione politica e culturale e dal suo spessore intellettuale che nel mondo del pallone costituiscono spesso un’eccezione. In più la sua morte a soli 57 anni per una cirrosi epatica provocata da un abuso di alcol l’ho vista come una forma di contrappasso visto che lui, come si sa, era medico (ma cominciò a esercitare la professione solo nel 1988 quando si ritirò dal calcio). E poi la sua capacità di mantenere un distacco filosofico nei confronti dell’ambiente calcistico. Si sa che suo padre, dopo aver letto “La Repubblica” di Platone, decise di chiamarlo Sócrates e di mandarlo a scuola e all’università. Anche a un altro fratello diedero il nome di un filosofo greco, Sofocle. E lui entrò nella parte, si sentì quasi investito di responsabilità legate a quel nome, aderì naturalmente al personaggio.

In che senso?

Lui riusciva a stare dentro e fuori le cose. Pur amando il calcio, cercava sempre di non farsi assorbire totalmente, diceva che o futebol era una parte della sua vita. Era sostanzialmente un anarchico, un libertario, anche la sua dedizione all’alcol, il bere soprattutto birra senza limiti aveva qualcosa di trasgressivo e di insofferente verso un mondo con le sue regole. Soffriva molto ogni forma di costrizione e il calcio con la sua disciplina gli pesava, ancora di più quello italiano che con la sua esasperazione tattica imbrigliava la sua fantasia e riduceva la sua libertà, tanto è vero che la sua esperienza nella Fiorentina durò solo la stagione 1984-1985, nonostante amasse molto Firenze e fosse molto amato dai tifosi. Anche il suo rapporto con la politica era abbastanza tormentato: pur essendo dichiaratamente un uomo di sinistra, quando alcuni anni fa Lula gli propose di far parte del Ministero dello Sport accettò ma fu una breve esperienza perché non riusciva a conciliare le regole della politica con il suo spirito libertario.

Le sue idee politiche poi le applicò concretamente nel Corinthians nel quale militò dal 1978 al 1984.

Certo. In veste di capitano fu protagonista di un curioso caso di autogestione dei calciatori che in un momento di crisi della squadra rifiutarono l’autorità del presidente e dell’allenatore e per tre anni si allenarono da soli riuscendo addirittura a vincere il campionato. Quest’esperimento è diventato un modello nella storia del calcio al punto che fu etichettato come «democrazia corinthiana». La vicenda fece molto clamore anche perché in quel periodo il Brasile era in piena dittatura e l’autogestione colpì non solo i tifosi e assunse un valore simbolico che andava oltre il calcio.

Che taglio dai al documentario? A che punto sei come raccolta del materiale?

Sono a un buon punto, ho raccolto molto materiale tra quello di repertorio e testimonianze live, sono stato un paio di volte in Brasile dove con il prezioso aiuto di Marco Mathieu che ha scritto con me la struttura del film e ha realizzato molte foto, ho intervistato alcuni personaggi che hanno conosciuto il «dottore», come spesso chiamavano Sócrates, e alcuni calciatori che hanno giocato con lui. In Italia ho intervistato Antognoni suo compagno di squadra ai tempi della Fiorentina. Il documentario prodotto dalla Alien Films di Eileen Tasca, che non ha ancora un titolo, vuole essere il profilo del calciatore fuori dal comune (Pelé lo ha definito «il giocatore più intelligente della storia del calcio brasiliano») e dell’uomo impegnato politicamente, del centrocampista longilineo capace di infiammare i tifosi con le sue giocate e dello sregolato bevitore. Tra poco comincia la fase del montaggio, dovrebbe essere pronto nei primi mesi del 2014, e mi piacerebbe mostrarlo durante i prossimi mondiali.

Tra questi due documentari hai girato anche il corto «Madre di pietà» con Imma Piro sul delitto di Maria d’Avalos compiuto da Gesualdo da Venosa, presentato recentemente in anteprima al San Carlo di Napoli.

Sì, è una bella storia di delitto e passione, che ha il respiro per un lungometraggio, ma con il corto ho cercato di concentrare il senso della vicenda.

Stai lavorando anche al tuo nuovo film di fiction e hai prodotto il film di un esordiente.

Il mio prossimo film s’intitola “Uno per tutti” tratto dall’omonimo romanzo di Gaetano Savatteri, è la storia di un gruppo di ragazzi ora cresciuti e una volta componenti di una banda. Sono ancora nella fase della preproduzione. Invece ho prodotto “Mirafiori Lunapark” che esce a febbraio dell’esordiente Stefano Di Polito con Antonio Catania, Alessandro Haber e Giorgio Colangeli nel ruolo di tre pensionati della Fiat che sognano di trasformare la fabbrica torinese dismessa in un lunapark. È un film a low budget che ho sostenuto produttivamente perché mi ha intrigato subito la storia avendo girato in gioventù alcuni documentari sulla e dentro la Fiat e mi piaceva ritornare in quei luoghi con una prospettiva diversa.

Hai militato da giovane nell’estrema sinistra e sei sempre stato schierato a sinistra. Come vedi l’attuale svolta del Pd con Renzi segretario? 

In un paese come l’Italia dove la politica ha perso credibilità e la gente non crede più alle promesse dei politici, se Renzi facesse seguire ai soliti proclami delle iniziative concrete di cambiamento, lo voterei subito.

Sei sempre stato anche un lettore e sostenitore de «il manifesto». Come vedi le difficoltà nelle quali si dibatte il giornale?

Il manifesto resta un giornale fondamentale nella storia del nostro paese e un riferimento politico-culturale e uno strumento di lotta imprescindibile. Non posso che augurarmi che raggiunga una maggiore tranquillità finanziaria. Mi preoccupa un po’ il fatto che vedo sempre meno giovani che lo leggono.