Il caso singolare dell’unica regione dal nome plurale è che tutti sembrano aver paura di vincere le elezioni. La campagna della conquista delle Marche della destra o, dall’altra parte, dell’eroica resistenza ai barbari del centrosinistra non è mai decollata davvero. In giro i manifesti sono quasi tutti coperti gli uni dagli altri in spregio della legge sulle affissioni, ma ormai le scorribande notturne per l’attacchinaggio si fanno più per posa che per convinzione. Ai comizi gli spazi vuoti superano di gran lunga quelli pieni e non è solo colpa del Covid, visto che davanti ai locali della riviera gli assembramenti non mancano mai.

È il sottotono tradizionale di una regione che ha sempre fatto di tutto per restare lontana dai riflettori: di leader nazionali nelle Marche se ne sono visti pochi. Molte seconde linee, qualche fugace apparizione di Matteo Salvini e Giorgia Meloni a sostegno di Francesco Acquaroli, ma sempre cose da pochi minuti e poi via andare in macchina verso altri lidi.

IL SEGRETARIO DEL PD Nicola Zingaretti, oltre al comizio finale di ieri sera a Macerata, è passato nelle Marche soltanto il 24 agosto – giorno dell’anniversario del sisma del 2016 – e ha detto che lui nella scelta del candidato Maurizio Mangialardi non è intervenuto: ha fatto tutto il partito regionale dopo la defenestrazione dell’ondivago Luca Ceriscioli a fine febbraio. Forse un elogio o forse un tentativo di smarcarsi preventivamente, i pareri sono contrastanti. Il Movimento Cinque Stelle arranca dietro, mai davvero in partita, con l’unica speranza di portare a casa la pelle e uno o due eletti in consiglio regionale. E poi c’è la sinistra di Dipende da noi, guidata dal filosofo Roberto Mancini, che spera di raccogliere consensi tra i delusi del centrosinistra e dalla società civile: in lista nessun politico, solo rappresentanti di associazioni e realtà del territorio. La campagna elettorale della lista «di impegno civile» è finita ieri sera in piazza del Papa ad Ancona, e sul palco tra gli altri c’erano l’ex presidente della regione Vito D’Ambrosio e Luciana Castellina.

LA RINCORSA di Mangialardi si misura in chilometri: nelle ultime due settimane il candidato del centrosinistra ha girato in lungo e in largo le cinque province, da San Marino all’ex confine con il Regno delle Due Sicilie, dalla costa all’Appennino. Acquaroli, dal canto suo, ha affrontato la campagna elettorale cercando di parlare il meno possibile, anche perché quando l’ha fatto molti dei suoi si sono pentiti di averglielo consentito. L’ultima uscita, resa pubblica dalla segretaria regionale della Cgil Daniela Barbaresi, riguarda l’aborto farmacologico in day hospital. «Faremo come in Umbria», ha detto Acquaroli, intendendo che anche nelle Marche sarà vietato farlo.

IL CENTROSINISTRA, per la volata finale, sventola la bandiera degli otto miliardi che arriveranno nelle Marche con il Recovery fund, battendo dove ha sempre battuto, a torto o a ragione: qui ci sono i progetti, di là c’è solo propaganda. «È un’opportunità storica per infrastrutture, imprese, lavoro e transizione ecologica – sostiene il segretario regionale dem Giovanni Gostoli -, parliamo di risorse mai avute prima per fare cose concrete, non slogan».

Sullo sfondo restano però ben visibili le «cose concrete» che negli ultimi cinque anni sono andate malissimo: il terremoto con la ricostruzione ancora ferma, la sanità con tanti ospedali chiusi e l’incredibile coinvolgimento di Guido Bertolaso e dell’Ordine di Malta per costruire un covid center a Civitanova rimasto aperto appena dieci giorni per soli tre pazienti. E ancora: le fabbriche che hanno chiuso a migliaia e non hanno mai più riaperto, la provincia di Ascoli maglia nera per salari in Italia (una media di 925 euro mensili, secondo i dati dell’Osservatorio statistico dei consulenti del lavoro), il turismo in declino inesorabile, la pesca che una volta era settore trainante ma che adesso non conta più nulla, due pesanti episodi a sfondo razziale mai davvero affrontati da un punto di vista politico: l’omicidio di Emmanuel Chidi Namdi a Fermo nel luglio del 2016, l’attentato di Luca Traini a Macerata nel febbraio del 2018. A far rumore non è tanto il merito del dibattito quanto la sua insostenibile indolenza, il suo brillare per grigiore.

Il centrosinistra che ha sempre avuto e amministrato il potere in Regione – prima con maggioranze miste sull’asse Dc-Psi e poi con le varie evoluzioni dell’Ulivo e delle larghissime coalizioni di centro-centrosinistra – deve aver paura più di questo che dei propri errori: la storia va avanti sempre per i fatti suoi e a volte gli scossoni sono violenti, altro che continuità e discontinuità. Perché il potere non è solo forma, rito da officiare, simbolo da esibire o bastone da brandire. È una questione di qualità. Alla fine non è nemmeno vincere o perdere.