La strada che da Kabul punta al Pakistan, verso il leggendario Khyber pass, abbandona i 1800 metri della capitale e comincia ad aprirsi su pianure rigogliose e umide, bagnate dal fiume Kabul (Tang-e-Gharoo), dove i contadini si spaccano la schiena e pascolano buoi e pecore, mentre i bambini si tuffano in acqua divertiti. Lungo la strada, si incontrano i resti di qualche auto-cisterna bruciata. Un simpatico omaggio dei Talebani, che provano a controllare quest’arteria fondamentale della guerra, dove dovrà passare buona parte dei mezzi militari delle forze Nato in ritirata.

Mohammad Naim è un uomo dalla faccia sveglia, i capelli neri, la parlantina facile. Viaggiamo insieme su uno dei taxi collettivi che raggiungono il confine pakistano. Io sono diretto a Jalalabad, a due ore e mezzo dalla capitale afghana, lui ad Attabad, una cittadina non lontana da Islamabad. Vive lì con la famiglia da quando i sovietici invasero l’Afghanistan, alla fine degli anni Settanta. Dal 2003 al 2009 ha vissuto a Londra, poi è tornato ad Attabad. Ogni tanto torna anche in Afghanistan, «almeno quattro volte l’anno, perché ho ancora qualche parente e diversi affari a Kabul». Lo farà anche nel 2014, per votare alle presidenziali del 5 aprile, da cui dipendono i futuri equilibri (o disordini) del paese: «Voterò per Ashraf Ghani Ahmadzai, almeno credo. È un uomo molto istruito, saprà guidare l’Afghanistan in futuro».

Ashraf Ghani è il candidato che piace agli stranieri, soprattutto agli occidentali. Ha vissuto per 24 anni fuori dal paese, ha studiato alla Columbia University, lavorato per la Banca Mondiale, scritto un libro (Fixing the Failed States) sui processi di ricostruzione dei paesi in crisi. Rientrato in Afghanistan, è stato rettore dell’Università di Kabul, ministro delle Finanze nel primo governo ad interim di Karzai, che poi gli ha affidato il compito cruciale di gestire la fase di transizione.
Ghani sembrerebbe avere le carte in regola per diventare il volto pulito dell’Afghanistan che verrà, ma dovrà fare i conti con due elementi. Il primo è che piace agli afghani educati, alla classe «media», a quanti hanno studiato e vivono nelle città principali, molto meno a quel 70% di popolazione che vive nelle aree rurali (alle presidenziali precedenti ha ottenuto un misero 2.9%). Negli ultimi anni, ha fatto di tutto per dimostrare che è come gli altri. Ormai non c’è occasione in cui non sfoggi un bel turbantone in testa, come a dire che è un pashtun doc. Forse riuscirà a vincere la diffidenza sul suo lungo soggiorno all’estero.

Più difficile che superi l’altro ostacolo lungo la strada che porta allo scranno più alto di Kabul. Quell’ostacolo ha una faccia paffuta, un paio di folti baffi ormai imbiancati e un nome che qui tutti conoscono e molti ancora temono: Abdul Rashid Dostum. Generale dalle mille alleanze, a capo delle forze di sicurezza di Najibullah, tra i più spietati comandanti che rasero al suolo la capitale durante il periodo della guerra civile tra mujaheddin (1992-1996), fondatore del Partito Jombesh-e-Melli (National Islamic Movement of Afghanistan), ha dominato a lungo con mano pesante il suo feudo personale del Nord, nelle province di Balkh, Jowzyan, Sar-e-pul, Faryab, abitate soprattutto da tajiki e uzbeki. Costretto a scappare in Turchia nel 1997 sotto pressione dei Talebani, è stato uno dei signori della guerra su cui gli americani hanno fatto affidamento per «liberare» nel 2001. Ashraf Ghani l’ha voluto per rafforzare la sua propria candidatura e prendere voti anche nelle province settentrionali.

Non è detto che la strategia funzioni: «È una scelta che potrebbe rivelarsi controproducente», dice Mangal Sharzad, docente nei dipartimenti di Scienze Politiche e Relazioni internazionali dell’Università di Nangarhar, a dieci chilometri da Jalalabad. Lo incontro all’interno del campus universitario, nella casa che lo stato gli mette a disposizione da 17 anni, da quando insegna. «Con Dostum come alleato, Ashraf Ghani potrebbe ottenere qualche consenso in più al nord ma perdere voti al sud e in altre aree del paese». Qui, infatti, per tutti Dostum è un tagliagola senza pietà. Ashraf Ghani lo sa. Per questo ha chiesto al suo alleato – secondo le indiscrezioni – di fare un mea culpa pubblico.

Dostum ha affidato le sue scuse al web, pubblicando il 7 ottobre una lunga lettera su facebook. «Voglio essere il primo a dire che ci scusiamo con tutti coloro che, su entrambi i fronti delle guerre, hanno sofferto», scrive. Le elezioni dovrebbero rappresentare «una nuova pagina nella nostra politica, in cui la guerra non sia la soluzione per le differenze» e le varie comunità del paese puntino all’unità nazionale. Si presenta come «l’iniziatore di una nuova era» in cui anche altri leader possano riconoscere i propri errori. Non parla di crimini, non specifica nulla, chiede scusa, ma non cerca il perdono. «La sua è una mossa esclusivamente elettorale», spiega il professor Sharzad, che preferirebbe vederlo in un tribunale: «Mi chiedo perché non l’abbia fatto prima, e poi chiedere scusa è troppo facile, ora, non basta. Per l’Afghanistan servirebbe un tribunale come quello di Norimberga, altrimenti tutti i futuri leader si sentiranno legittimati a compiere altri crimini e, poi, a uscirne puliti con un’alzata di spalle».

Anche il mio compagno di viaggio, Mohammad Naim, non si fida. «Come potrei? Quell’uomo è responsabile di un mucchio di omicidi. Ero certo di votare per Ghani, ma dopo questa scelta dubito». La discussione nel taxi si fa accesa. Interviene un uomo alto, con i capelli chiari, che viene dal Nuristan, provincia al confine con il Pakistan, l’ultima a convertirsi all’Islam (tanto che prima si chiamava Kafiristan, la terra degli infedeli). Non crede nelle elezioni: «Ci sono più di venti candidati, dice, ma vincerà solo quello che sarà appoggiato dagli Stati Uniti». Qualche ragione per sospettare l’interferenza degli americani ce l’ha. Nel maggio scorso l’American Foundation ha pubblicato un rapporto dal titolo Toward a Successful Outcome in Afghanistan, che va preso sul serio: tra gli autori c’è anche il generale John Allen, già a capo della missione Isaf.

Il discorso degli autori è semplice e pragmatico: «Dal momento che gli Usa hanno promesso almeno cinque miliardi all’anno in aiuti (per mezzo decennio e oltre) e stanno pensando di spenderne circa altri 10 all’anno o più per una presenza militare post-2014, gli americani hanno un interesse nel processo elettorale e nel suo esito». Per questo, non dovrebbero limitarsi a minacciare o a tagliare i fondi nel caso in cui le elezioni non dovessero svolgersi come si deve, ma dovrebbero «esprimere il proprio punto di vista». Quello del professor Sharzad è chiaro: «Sarebbe meglio che gli Stati uniti interferissero il meno possibile, e che lasciassero il paese. Con il loro ritiro, tutto diventerà più facile», spiega, prima di offrirmi una tazza di tè verde.