Nel momento della resa Silvio Berlusconi ha insistito perché nel comunicato che proclamava la vittoria di Matteo Salvini fosse almeno messo nero su bianco che l’accordo con il Movimento 5 Stelle non implicava intese di governo. Il leghista ha accondisceso di buon grado. Tanto sono parole al vento. La realtà è opposta: la battaglia delle Camere peserà persino più del prevedibile sulla prossima mano, quella che dovrà verificare la possibilità di una maggioranza comune.

Tra gli elementi decisivi c’è la certificazione di quanto illusorio sia per tutti inseguire il miraggio di una maggioranza con il Pd. Matteo Renzi di fatto è ancora il padrone del partito. Controlla i gruppi parlamentari, in particolare quello del Senato, e può pertanto bloccare ogni manovra non di suo gradimento. Ha in mente una strategia precisa: fare del Pd l’M5S della legislatura in corso. Il partito che si oppone. Quindi nessuna alleanza è neppure ipotizzabile, né con la destra né con i 5 Stelle. E’ stato quindi sgombrato il campo da un equivoco che aveva sin qui autorizzato illusioni e ipotesi mirabolanti. Da ieri è chiaro che di maggioranze politiche possibili ne esistono solo due: quella tra l’intera destra e M5S, oppure quella tra la sola Lega e il Movimento di Luigi Di Maio.

La vittoria totale di Salvini ha poi dimostrato che il capo leghista e quello pentastellato sono capacissimi di lavorare in perfetta sintonia e soprattutto che, se necessario, il leader leghista è pronto a sacrificare l’unità della coalizione di centrodestra pur di non rompere i ponti con i 5S. Si è così chiarita anche un’altra incognita che aveva sinora condizionato ogni ragionamento sui possibili esiti della crisi. Berlusconi, che rappresentava e in parte rappresenta il principale ostacolo a un’intesa tra l’intera destra e Di Maio, dovrà d’ora in poi considerare che le sole due alternative a quella maggioranza sono quelle da lui più temute: un nuovo voto a breve, che sarebbe esiziale per il partito azzurro, oppure un governo M5S-Lega, che costringerebbe sì Salvini nei panni stretti del socio di minoranza ma costerebbe a Berlusconi stesso molto di più. Quel governo sarebbe infatti tutt’altro che amichevole nei confronti della sue aziende, e si sa che, nei momenti decisivi, la bussola che orienta il signore d’Arcore è sempre l’interesse dell’azienda. E’ stato così anche nella scorsa notte.

La strada per una maggioranza che coinvolga tutta la destra e la lista a cinque stelle è spianata. L’ostacolo è la presidenza del consiglio, e non è affatto un ostacolo facilmente sormontabile. Potrebbe anzi rivelarsi insuperabile. Per uscire dal vicolo cieco ci sono due soli modi: una staffetta, che però ha funzionato malissimo l’unica volta che è stata provata, quando negli anni ’80 del secolo scorso Bettino Craxi e Ciriaco De Mita avrebbero dovuto avvicendarsi a palazzo Chigi, oppure l’individuazione di un presidente del Consiglio neutrale, tecnico e apprezzato da entrambi, come ad esempio l’ex commissario alla spending review Carlo Cottarelli, oppure il presidente dell’Authority anti-corruzione Raffaele Cantone o comunque una figura simile. I due vincitori del 4 marzo lo affiancherebbero con ruoli di pari importanza.

Non si tratta certo di un percorso facile e dall’esito certo. La rivolta dello stesso stato maggiore forzista di ieri, dopo la decisione di cedere del Cavaliere, e poi quella di una legione di deputati che non hanno votato Roberto Fico è uno scoglio pericoloso. L’elezione dei capigruppo azzurri, martedì prossimo, potrebbe rivelarsi tempestosa: alla Camera Maria Stella Gelmini pare certa, il Senato invece brancola nel buio. Ma negli ultimi due giorni si è aperto qualcosa in più di un semplice spiraglio.