Il viaggio comincia, deve cominciare, da dove tutto è finito. Quel ‘dove’ si chiama Terezìn, nord della Boemia, tremila abitanti. Qui, la macchina dello sterminio nazista, tra la fine di novembre del 1941 e il 20 aprile del 1945, funzionò a pieno carico per cancellare i dieci secoli di storia degli ebrei in terra ceca. Terezìn era il luogo perfetto: una città della guerra voluta a fine ’700 dall’imperatore Giuseppe II d’Austria come baluardo contro le mire del Regno di Prussia sulle miniere di carbone della Slesia, e così battezzata in omaggio alla madre di Giuseppe, Maria Teresa. I quindici chilometri di mura che circondavano la Piccola Fortezza disegnata a forma di stella, ironia della casualità, e il complesso di undici caserme della Grande Fortezza non subirono mai assedi o attacchi. Nel 1882, Terezìn, militarmente inutile, venne declassata a carcere politico per gli oppositori della monarchia.

Dentro la Piccola Fortezza, cella numero uno, il 28 aprile del 1918 morì appena ventitreenne, dopo quattro anni di detenzione, Gavrilo Princip, l’autore dell’attentato di Sarajevo. Durante la Prima Guerra Mondiale vi furono reclusi migliaia di soldati nemici. Il 10 giugno del 1940 la Ghestapo, comandata da Heinrich Jöckel, ne fece il proprio quartier generale, trasformandola in un campo di prigionia. Ma il destino del popolo ebraico si consumò altrove. Non ingannino, della Piccola Fortezza, la scritta Arbeit macht freit sull’arco di uno dei cortili; i dormitori e gli stanzoni delle docce, i locali delle cucine e delle lavanderie, così simili a quelli di Auschwitz. Questo fu luogo di lavori forzati, torture, morte, destinato a eliminare chiunque lottasse contro l’invasione nazista. Dei trentaduemila uomini e donne cui, dal 1940 al 1945, fu tolta la libertà, duemila e seicento morirono di stenti o giustiziati.

Lo raccontano a a destra e a sinistra del viale di entrata la grande croce e la grande stella di David che vegliano le distese di pietre tombali. Poi, con le sue pareti meticolosamente divise in caselle, l’archivio, prima tappa del calvario. Lì si consegnavano, insieme alla propria identità, tutti gli effetti personali. Ne sono testimoni l’ufficio di Jöckel e la contigua stanza degli interrogatori, un tavolino e due sedie l’una di fronte all’altra; le celle di isolamento prive di un raggio di luce, di un pagliericcio, di un bugliolo. Gridano tutta la crudeltà della Ghestapo la tinozza di legno posta sotto la doccia gelata, estrema sofferenza inferta ai prigionieri già massacrati di botte; la forca sprovvista di botola, strumento di una lenta agonia; il muro delle fucilazioni nel poligono di tiro.

Suonano atroci beffe i finti bagni allestiti per un’ispezione della Croce Rossa nel 1943, e la piscina costruita dai detenuti per il diletto degli ufficiali nazisti. Suscitano rabbia viva, poco fuori dalla Piccola Fortezza, la lussuosa residenza di Heinrich Jöcke e quella degli aguzzini ai suoi ordini, entrambe circondate dal verde, paradisi a un passo dall’inferno, Ma, si diceva, l’olocausto di Terezìn si consumò altrove, senza camere a gas o forni crematori, usando l’arma ‘pulita’ della deportazione. Si consumò all’interno delle undici caserme della Grande Fortezza, olocausto che non ha lasciato traccia di sé, ma ha avvolto il paese in un guscio invulnerabile di abbandono e tristezza. Nel gennaio del 1942, Jöcke decise di fare del complesso militare un ghetto modello, e di concentrarvi gli ebrei che, a vario titolo, era impossibile deportare subito, rischiando di sollevare troppa indignazione: anziani, infermi, bambini; artisti, intellettuali, docenti universitari di una certa fama. Il mese seguente le autorità locali furono destituite e gli abitanti costretti ad andarsene. Il paese passò sotto il controllo della Ghestapo.

Unico interlocutore ammesso era lo Judenrat, il Consiglio ebraico, corpo amministrativo istituito e imposto dalla Germania. Il Consiglio era responsabile del governo del ghetto, vigilava sull’applicazione dei decreti, doveva fornire manodopera ed era obbligato a collaborare alle deportazioni. A maggio si contavano circa ventinovemila ebrei cechi internati, nel giugno se ne aggiunsero quarantamila dal Reich. Vecchi e malati trovarono ad attenderli un’accoglienza ben diversa da quella promessa. I tedeschi avevano garantito loro un confortevole soggiorno in case di riposo se avessero rinunciato ad ogni proprietà e firmato falsi contratti per ottenere assistenza, vitto e alloggio, cure sanitarie. Finirono a ingrossare le cifre di una tragedia le cui cifre si commentano da sole.

Dei 141mila ebrei transitati per la Grande Fortezza dalla fine del 1941 all’aprile del 1945, 33mila morirono, 17mila furono liberati. La mortalità dovuta a denutrizione e malattie toccò il 50% nel 1942. Le deportazioni, soprattutto ad Auschwitz e a Treblinka, riguardarono 88mila persone, meno di tremila riuscirono a salvarsi. Gli arrivi e le partenze dei convogli avvenivano inizialmente dalla stazione ferroviaria di Buhoshovice, tre chilometri da Terezìn. Nel 1943 furono gli ebrei a posare i binari del raccordo di collegamento alla fortezza. Quindicimila bambini e quattromila disegni. La memoria dell’olocausto ceco è anche questo. Sotto la guida della pittrice austriaca Friedl Dicker-Brandeis, internata a Terezìn e morta a Birkenau, i piccoli scolari degli asili e delle case per l’infanzia allestiti nel ghetto raccontarono con le matite colorate il dolore della famiglia perduta, il buio delle paure, la fragilità delle speranze; rivolsero al mondo domande rimaste sospese. Parte dei disegni sono esposti nelle sale del Museo ebraico di Praga, e raccolti nelle pagine di Qui non ho visto farfalle, in vendita al bookshop del museo.

La memoria dell’olocausto ceco è anche musica. Il jazz dei The Ghetto Swingers e l’allestimento di alcune opere liriche allietarono le serate di Jöckel e dei suoi scagnozzi. Che nel 1944 non perdonarono al direttore Rafael Schächter, all’orchestra e al coro, il ‘Libera nos!’ della Messa da Requiem di Verdi gridato in faccia ad Adolf Eichmann, ospite d’onore del concerto. Qualche giorno dopo salirono su un treno per Auschwitz. La memoria dell’olocausto ceco è anche cinema, una sola volta, quando la troupe che aveva girato nell’estate dello stesso anno Terezín. Documentario da un insediamento ebraico, venne fatta sparire. Non si poteva lasciare in vita chi ben sapeva che ogni scena era ridicola propaganda, maschera grottesca dietro cui nascondere al mondo la verità della Soluzione Finale.

BRANDYS E TREBIC, IL RACCONTO DI UN MONDO SCOMPARSO

BOEMIA. In ceco, Hvĕzd vuol dire stella. Hvĕzd, preceduta dal numero 10, è il nome del progetto di recupero dei monumenti ebraici, avviato nove anni fa dalla Federazione della Comunità ebraica ceca in collaborazione con il Ministero della Cultura. La Federazione ha individuato in Boemia e Moravia sessanta sinagoghe, trecentocinquanta cimiteri e un numero ancora imprecisato di edifici civili, sopravvissuti agli scempi del tempo e dell’abbandono, dell’occupazione nazista, del regime filosovietico. I siti scelti sono stati oggetto di una campagna di recupero resa possibile da uno stanziamento di undici milioni di euro. Tra questi figura il sito della cittadina di Brandys nad Labem, trenta chilometri da Praga, diciottomila residenti. Dominano la grande piazza la chiesa principale, il municipio, garbate abitazioni a due piani, qualche negozio. Bianco dei muri, rosso dei tetti, che tornano a proporsi quando ci si infila tra le vie del centro storico. Trenta chilometri non bastano a cancellare dagli occhi le architetture e i decori delle sinagoghe praghesi, e dunque la delusione ha qualche diritto di affacciarsi. La sinagoga di Brandys occupa lo spazio di uno slargo. Se la guida dell’Ufficio Informazioni non l’avesse indicata, sarebbe stato difficile notarla. Traccia esile, la scritta in caratteri ebraici sulla pietra rettangolare incastonata sopra l’ingresso di quella che somiglia a una vecchia scuola. La delusione, prima nascosta per rispetto, si stempera via via, e poi si dissolve nelle parole della guida, racconto di un mondo scomparso. Qui, la presenza di una comunità ebraica risale al Sedicesimo secolo. I pochi membri si stabilirono sull’altra sponda del fiume Mlýnský, e nel 1559 costruirono la sinagoga e il cimitero. Una zona oggi in pieno centro, tra le vie Na Potece e Na Strouze; un ghetto dal quale, nel ’600, per qualche mese, fu concesso agli ebrei di uscire. A partire dal ’700, la presenza ebraica a Brabdys andò crescendo. Nel 1765 il ghetto aveva un suo rabbino; un mohel, il chirurgo cui era affidata la circoncisione; un macellaio che tagliava le carni seguendo le regole kosher. Marginale il ruolo dei commercianti; poveri i mestieri degli artigiani. I registri comunali del 1849 elencano a Brandys 289 ebrei e le attività industriali di alcuni di loro: Solomon Reichmann, tintore e stampatore; Abraham Pick, produttore di saponi, e Ferdinand Janowitz di oli e vernici. Tra l’800 e il ’900, la comunità va, però, progressivamente assottigliandosi. In molti decidono di trasferirsi a Praga e Brno. Negli anni ’30 del secolo scorso, gli ebrei rimasti a Brandys sono una sessantina. Tra il 13 e il 16 gennaio del 1943 verranno deportati a Terezìn, i sopravvissuti emigreranno in America. L’attuale sinagoga data al 1829, riedificata dopo l’ennesimo incendio. La duplice galleria e il tabernacolo della sala principale furono distrutti durante i decenni del comunismo, e lo spazio adibito a deposito. Il restauro ha portato alla luce lo stile originale impero. Analoga operazione è stata compiuta con la Casa Comune annessa alla sinagoga, che comprende la casa dei maestri, l’aula scolastica, la cucina, la sala invernale di preghiera. Qualche minuto a piedi porta al cimitero, dove l’immagine di un altro cimitero, quello Vecchio di Praga, esce sconfitta dal silenzio e dall’assenza di turisti invadenti. L’ultimo ebreo di Brandys è sepolto qui, sulla tomba la data,1942. A due ore d’auto dalla capitale ceca, in mezzo ai boschi della Boemia, il ghetto di Trebic è Patrimonio Unesco dal 2003, insieme alla Basilica romanica di San Procopio. Non lontano dalla basilica, lo attestano due documenti ufficiali del 1338 e del 1410, si insediarono i primi ebrei. La formazione di un nucleo abitativo risale al ’500, nell’allora villaggio di Podklasteri, che andrà via via spopolandosi di abitanti cristiani. Nel 1723, Jan Josef Valdstejn, proprietario dei territori, li costringerà a vendere casa agli ebrei. Nasce il ghetto, il cui centro è identificabile oggi con piazza Tiché. Chiuso da mura, si estenderà progressivamente a nord e lungo lo sbarramento naturale del fiume Jihlava. Se ciò che oggi ne rimane rende comunque bene l’idea dell’impianto urbano, il gigantesco plastico allestito al piano superiore della Sinagoga Nuova mostra quella che era una vera e propria città nella città, con una popolazione che arrivò a contare mille e cinquecento persone. Volendo muovere un appunto, tra le vie del ghetto si respira un’aria un po’troppo pulitina e si avverte il rischio di un futuro affollamento di caffè, negozietti di artigianato, ristorantini, atelier di artisti. Ma per ora va benissimo così. Superato il ponte di unione con Trebic, si entra nella vita quotidiana di un’enclave ebraica com’era tre secoli fa. Partendo dalla seicentesca Casa del rabbino, adibita a punto informativo, bastano pochi passi per raggiungere la Sinagoga Nuova, volte a botte e pareti affrescate nel Diciottesimo secolo, una galleria balconata che copre l’intero perimetro. Settecenteschi l’imponente conceria Subak, testimonianza di uno degli antichi mestieri praticati dagli ebrei, e l’edificio della prima scuola elementare pubblica. Appartenevano ad Abraham Novacek, Josef Sklenar, Samuel Ryasavy, Jakob Kolp i palazzotti che si scoprono camminando senza una meta precisa. Altri portano soltanto un numero. All’interno della ex residenza di Seligmann Bauer è stato ricostruito, con arredi e suppellettili dell’epoca, l’appartamento di una famiglia nel periodo tra le due guerre mondiali. La tavola della cucina è apparecchiata per il pranzo del sabato. Il pianoterra ospita la fedele riproduzione di una drogheria. Accanto al banco di vendita, kippah in testa, il padrone della bottega. Anche gli ultimi trecento ebrei del ghetto partirono verso la Grande Fortezza di Terezìn, era il maggio del 1942. Li ricorda una lapide nella Sinagoga Nuova. A Praga sono tra gli ottantamila nomi dell’olocausto ceco, dipinti in rosso e nero a ricoprire i muri della Sinagoga Pinkas.

INFO

Per notizie e informazioni sul progetto 10 Hvĕzd, 10hvĕzd cz. Boemia e Moravia offrono numerosi itinerari che hanno nei ghetti ebraici il loro filo conduttore. Oltre all’ottimo sito del Turismo ceco in Italia, czechtourism.it, consigliamo vivamente jewish-route.eu, anche in lingua inglese. Venti le tappe della Strada Ebraica, descritte attraverso schede molto dettagliate e curate. Altrettanto consigliato, per chi vuole davvero approfondire la storia e la cultura degli ebrei a Praga, fare della signora Jana Zemanova la propria guida, zemanova.jana@post.cz, guide-jana-zemanova.com. Jana parla perfettamente italiano, e di ciascun luogo riesce ad offrire una lettura mai scontata. Da lei ci è arrivata la ‘dritta’ fondamentale della visita alla Basilica di San Procopio. Fidatevi di Jana anche per quanto riguarda i luoghi praghesi del mangiare e del bere, evitando trappole e prezzi turistici. Piccola bibliografia a proposito del nostro viaggio, con titoli reperibili in loco: Trebic. History and Sights, presso il Punto Informativo del Ghetto; La Piccola Fortezza di Terezìn 1940 – 1945, shop della Piccola Fortezza; il già citato Qui non ho visto farfalle, in vendita al bookshop del Museo Ebraico di Praga