Tuskegee, Alabama. Sono gli anni ’30 e la contea ha il tasso di sifilide più alto dell’intera nazione americana. Per il trattamento della malattia vengono utilizzati arsenico e mercurio. La scoperta della penicillina come cura della sifilide arriverà solo 10 anni più tardi. È in questo contesto, nel 1932, che avviene l’esperimento della sifilide – denominato, poi, Tuskegee Syphilis Study.

Lo “studio” venne condotto dal Public Health Service (PHS) su centinaia di mezzadri neri dell’Alabama, spesso ancora forzatamente legati alla cultura di sfruttamento nei campi di cotone, anche decenni dopo l’abolizione della schiavitù. In cambio della partecipazione allo studio gli venne fatta la promessa di ricevere cure mediche gratuite.

Ma la realtà fu ben diversa. E nessuno dei partecipanti venne informato di essere il soggetto di un esperimento medico.

Secondo i dati del PHS, la metà degli uomini con la sifilide scelti per lo studio fu sottoposta al trattamento con arsenico e mercurio e l’altra metà, circa 200 uomini, non ricevette alcun trattamento.

La sifilide è un’infezione altamente contagiosa che si diffonde attraverso il contatto sessuale e, se non è trattata, può causare cecità, sordità, deterioramento delle ossa, dei denti e del sistema nervoso centrale, danni neurologici gravi, malattie cardiache e, nei casi più estremi, morte.

Lo studio di Tuskegee proseguì per 40 anni e, anche quando il trattamento per la sifilide divenne disponibile, chi era malato e ancora in vita non venne curato.

È risaputo che dopo Tuskegee (e anche prima) furono numerosissimi i casi di malattie indotte agli afroamericani per “esperimenti” nel campo medico.

L’autrice Harriet Washington documenta che i neri furono deliberatamente esposti a una vasta gamma di rischi biologici, tra cui dosi di radiazioni letali, tecnologie sperimentali pericolose, prodotti chimici non testati, vaccini rischiosi, iniezioni con agenti infettivi e sostanze tossiche.

Le profonde cicatrici di secoli di sfruttamento razziale nel campo medico sono visibili ancora oggi all’interno della società americana e si concretizzano in un sentimento di forte diffidenza nei confronti del sistema sanitario e, conseguentemente, nei vaccini. Anche quello per Covid-19.

Va sottolineato che questi meccanismi non hanno nulla a che vedere con i no-vax, con le tendenze negazioniste o con una risposta patologica ai meccanismi della scienza o della medicina. Ed è anche un errore identificare le cause di questi meccanismi nella sola istanza di Tuskegee.

Piuttosto, per comprendere la diversa percezione dei vaccini da parte di alcuni membri delle comunità nere negli Stati Uniti bisogna guardare ad una storia secolare di abusi, senza credere che oggi questi siano completamente assenti. Nel 2020, un medico francese – che si è poi scusato con il pubblico – ha suggerito di condurre sperimentazioni cliniche in luoghi africani dove le persone “non portano le mascherine” e dove “non ci sono cure”.

Nel suo libro Medical Apartheid, Washington fa notare che non esiste alcun ambito della medicina americana in cui gli afroamericani “non sono stati espropriati del loro corpo o dei tessuti del loro corpo o costretti a essere soggetti di ricerche, ricerche che spesso erano piuttosto primitive e dannose”. E il fallimento nel riconoscere la presenza di questi abusi all’interno di una cornice di razzismo strutturale non ha fatto altro che peggiorare la situazione.

Secondo un sondaggio del Pew Research Center di dicembre 2020, i neri americani sono i meno inclini a volersi far vaccinare rispetto ad altri gruppi etnici: il 42% contro il 61% dei bianchi, il 63% degli ispanici e l’83% degli asiatici americani.

Non si può ignorare, poi, che esiste una sovrapposizione tra le comunità più “diffidenti” nei confronti del sistema sanitario americano per motivi di razzismo storico e le comunità che sono più duramente colpite dal coronavirus.

Secondo Washington, la diffidenza deriva, ancora una volta, dal fatto che “il sistema sanitario è difettoso, profondamente difettoso, e tratta gli afroamericani in modo diverso”.

Le esperienze di discriminazione e di disparità all’interno del sistema sanitario non fanno altro che alimentare la diffidenza nei confronti dei vaccini. E il rovescio della medaglia è che, nel corso dei secoli, i contributi medici da parte di neri sono stati completamente “esclusi” dalla Storia.

Uno schiavo africano di nome Onesimus, di “proprietà” di Cotton Mather, autorità religiosa d’America a cavallo tra il diciassettesimo e il diciottesimo secolo, ha portato, ai bianchi, la variolizzazione – una sorta di precursore della vaccinazione e una pratica comunemente effettuata in alcuni paesi africani.

Un altro afroamericano, il dottor Louis T. Wright, rivoluzionò il trattamento del vaiolo durante la seconda guerra mondiale.

In questa fase, mentre gli Stati Uniti hanno avviato la vaccinazione su tutto il territorio, gli operatori sanitari neri sono stati tra i primi a farsi vaccinare e, in alcuni casi, pubblicamente, in modo tale da rafforzare la trasparenza e la fiducia.

È chiaro, tuttavia, che questo non può sostituire una riforma su larga scala del sistema sanitario americano e che è necessario andare alle radici di queste dinamiche per sradicare la visione occidentale della medicina come un “esclusivo dominio bianco”.