Nel programma di Cinéma du Reel, il festival del documentario che si apre a Parigi venerdì 18 (fino al 27, al Centre Pompidou) – apertura con Between Fences, il nuovo film di Avi Mograbi, investigazione brechtiana sulla condizione dei migranti – una delle sezioni intorno ai quattro concorsi – nazionale, internazionale, opere prime, cortometraggi – è dedicata a Akram Zaatari. Artista, architetto, fotografo libanese (di recente intervistato su queste pagine da Arianna Di Genova in occasione della mostra romana The Archaeology of Rumour, ndr http://ilmanifesto.it/una-lettera-dal-passato/), Zaatari nella sua opera compone una storia collettiva, a cominciare da quella del suo Paese attraverso i frammenti di un puzzle molto personale: dettagli, racconti alla prima persona, traumi, finzione, realtà, paradossi. Capita anche che una vecchia fotografia della nonna, con lei bellissima che ammicca divertita all’obiettivo mentre fa scivolare piano via la calza, diventi lo spunto per una lezione di fotografia. Il film di chiama Her+Him, l’autore della foto, scattata nel 1959, è un fotografo del Cairo, Van Leo con la passione per le riviste di attori hollywoodiani e i primi piani. «La faccia determina la posizione della macchina fotografica» dice.

 
Nel suo studio ha fotografato infinite donne, e anche tanti uomini, gli sportivi soprattutto col vanto del muscolo, e molte ragazze hanno posato nude. Quelle immagini però le ha distrutte, il Paese era cambiato spiega l’anziano signore.
La fanciulla in questione, bella, bellissima però la ricorda ancora perché aveva chiesto dodici pose diverse da scattare mentre si spogliava. Su una c’è un numero di telefono: ci sarà stata una relazione fra loro? Intanto parlando di fotografia e di bianco e nero, che è «la vera arte», tra le mura dello studio fotografico scivola la storia dell’Egitto, la rivoluzione di Nasser, la guerra con Israele, i tempi presenti – il film è stato girato nel 2012, «molto difficili».

 

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A volte capita invece che tutto cominci da una lettera seppellita in un giardino. In this House – con cui insieme a Letter to a Refusing Pilot (2013) Zaatari ha rappresentato il Libano alla Biennale di Venezia – porta l’artista a Ain el-Mir, nel sud del Libano invaso nell’82 da Israele. I villaggi si svuotano, la resistenza libanese occupa le case abbandonate per combattere. Tra loro c’è Alì che rimane in una piccola casa diroccata fino alla fine della guerra, nel ’91, e prima di andare via lascia una lettera alla famiglia che vi abitava per spiegargli cosa è accaduto in quegli anni, per cosa loro hanno combattuto, e dargli il bentornato.

 

 

La seppellisce in giardino, dentro al guscio di una bomba, e lì rimane finché Zaatari non decide di andare a vedere se è ancora lì. Questa specie di «caccia al tesoro» sarà il film. Ma la ricerca della lettera si trasforma in qualcosa di surreale: arriva la polizia, poi l’esercito, poi gli agenti dell’intelligence, fanno domande, vogliono sapere che accade in quel piccolo giardino. Cosa temono tutti? A Zaatari impediscono di riprendere le loro facce, in campo mentre scava c’è solo il giardiniere, e pure quelle della famiglia che è tornata a vivere nella casa.

 

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L’immagine sullo schermo è anch’essa formata da più tracce, non proprio uno split screen ma l’evidenza di una narrazione che procede mettendo insieme le vite delle persone. Da una parte c’è Alì, che si definisce «socialista radicale, leninista non settario» e ricorda la sua esperienza nella guerra contro Israele. Dall’altra un uomo che scava in un luogo di cui non si vede quasi nulla. E ancora le sagome oscurate di chi non vuole apparire. Zaatari mescola archivi, vecchie fotografie, i diario di Alì che a un certo punto non gli risponderà più al telefono, il suo viso sorridente di bambino nelle vecchie fotografie di famiglia, Beirut durante l’invasione israeliana, i paesaggi che lo stesso Zaatari ha fotografato tornando dalla casa verso la capitale, le prime pagine dei giornali durante la guerra.
Verità e finzione, le emozioni e la Storia.Una cartografia in continuo movimento.