Auschwitz è un luogo che ci interroga: è stato il più grande campo di sterminio industrializzato della Germania nazista. E pone, oggi, domande immense: tentare di farne un elenco interpella il nostro essere uomini e donne, la storia d’Europa, la coscienza individuale, la vita presente e le responsabilità future. Oggi un aiuto a formulare domande e ipotesi di risposte lo offre Non c’è una fine. Trasmettere la memoria di Auschwitz (Bollati Boringhieri, pp. 148, euro 15) di Piotr M. A. Cywinski che dal 2006 è direttore del museo-memoriale di Auschwitz-Birkenau e che l’8 settembre sarà fra gli ospiti di Festivaletteratura di Mantova (ore 17, Palazzo del Seminario Vescovile – Auditorium). Il libro è tradotto e curato da Carlo Greppi che ne scrive anche una bella postfazione rivolta al pubblico italiano.
Non c’è una fine è un volume che non esaurisce temi e domande ma che pure lenisce il travaglio di chi sente di doversi confrontare con l’anus mundi della «civile» Europa che in quel luogo ha perso, definitivamente, la sua innocenza.

UN LIBRO deliberatamente di parte, scritto da uno che «rimane qui»: «Ai visitatori servono quattro ore per visitare Auschwitz, a volte un po’ di più. Noi invece restiamo qui. Vediamo Auschwitz giorno dopo giorno, nella neve, alla luce del sole, nella foschia del mattino, prima delle vacanze, nel giorno del nostro compleanno, subito dopo la nascita di nostro figlio o al ritorno dal funerale di qualcuno a noi caro». Poche righe più avanti, spiega come «a noi nessuno domanda al rientro a casa come abbiamo passato la giornata». Vi è in questo una qualche saggezza: «In fin dei conti, non tutto deve essere detto. Proprio come non tutto deve essere sentito.

2settembre_CLT1_occhiali ritrovati ad auschwitz
[object Object]

CI SONO VERITÀ che non aumentano affatto la nostra conoscenza. Al contrario ci avvelenano». Ed è la riflessione su verità, autenticità e conoscenza che accompagna per intero la lettura del libro.
In un itinerario tra molte domande il volume ragiona, con garbo e inquietudine, su cosa sia Auschwitz oggi e sul perché milioni di persone vi si rechino ogni anno: «dopotutto, sappiamo cosa è successo ad Auschwitz e non ci sono sconosciuti i nomi di altri luoghi – scrive Cywinski – come Treblinka, Mauthausen, Buchenwald, Dachau o Gross-Rosen. I fatti li conosciamo dai libri, dai manuali, dagli insegnanti. Tuttavia crediamo che ad Auschwitz saremo in grado di capire qualcosa di più». La potenza di quel luogo interroga ancora se oltre cinquanta milioni di persone vi si sono recate in visita, omaggio e ricordo nel corso degli anni. Le pagine del libro non risparmiano domande, a nessuno.

CIASCUNO, in virtù della propria formazione culturale, politica o umana può trovarvi e aggiungere le proprie. Quello che è certo – prosegue Cywinski – è che «stando ad Auschwitz giudichiamo molto di più di una specifica generazione, giudichiamo l’umanità. Di conseguenza giudichiamo noi stessi». Una questione di inizio è perché proprio Auschwitz abbia finito con il rappresentare l’intero dramma della Shoah – la distruzione sistematica degli ebrei – quando in realtà non è così. La Shoah infatti non si esaurisce nello sterminio industrializzato – le stragi di massa e le fosse comuni nell’Europa orientale ebbero altra storia, altre date e, in parte, altri protagonisti – come Auschwitz non esaurisce tutta la sua storia «solo» nella Shoah: fu il punto centrale di un sistema concentrazionario con fabbriche e campi di lavoro. Ed è questo uno dei motivi per cui ne conosciamo meglio la storia: in quanto campo di lavoro vi furono più sopravvissuti. Eppure «di tutti i maggiori centri di assassinio di massa, solo Auschwitz è sopravvissuta in una forma che si mostra ancora decifrabile. Gli altri luoghi furono smantellati, distrutti e alterati al punto da essere irriconoscibili (…) per questa ragione Auschwitz come sito memoriale iniziò ad essere visitato regolarmente da capi di stato, primi ministri e leader religiosi. Divenne il centro simbolico di un tutto molto più grande ed esteso».
La riflessione di Cywinski non si sclerotizza nel simbolo e cerca di andare oltre. Nella memoria pubblica vi è un’evidenza che rimane celata: nell’immaginario collettivo Auschwitz è rappresentato dal filo spinato, dalle torrette di guardia, dall’immondo cancello con la scritta «il lavoro rende liberi». Lo scopo del museo-memoriale è esattamente il contrario di quella rappresentazione stereotipata: è invece ricordare le persone. «Le persone comuni che vennero assassinate in questo Luogo. Senza questa consapevolezza il lavoro diventerebbe simile a quello che si fa in qualsiasi museo o sito archeologico», perché è incontrare lo sguardo delle vittime che costringe ad affrontare l’immensità dello sterminio. Per questo, spiega ancora Cywinski, «la narrazione della memoria qui coincide prima di tutto con il Luogo». Il Luogo – la maiuscola è di Cywinski – è lo spazio fisico attraversato da quelle vittime, non simbolo ma consistenza. «La voce dei sopravvissuti e il Memoriale sono i due maggiori pilastri della narrazione di Auschwitz. Si sostengono l’un l’altro. Uno sarebbe più debole senza l’altro».

LA PRESENZA FISICA del visitatore che si aggira tra i resti tangibili del campo mette a confronto «l’immaginazione disorientata con l’inflessibile realtà». «Le parole e il Luogo si sostengono a vicenda per creare un tutt’uno. Queste due realtà sono tutto ciò che abbiamo, e non avremo mai niente di più». Ed è intorno a quel Luogo che il volume si dipana: non tanto su cosa sia stato ma su cosa debba essere oggi.
Il libro affronta alcune delle antinomie che la riflessione su Auschwitz pone – quella tra storia e memoria per esempio – e affronta con determinazione il dilemma tra conservazione e innovazione: i chilometri di filo spinato devono essere sostituiti ogni dozzina di anni. «Qualcuno protesta sostenendo che non si dovrebbe installare del filo spinato moderno in un luogo in cui il paradigma è l’autenticità. Invece si può e deve essere fatto. Diversamente, Auschwitz sarebbe circondata da migliaia di pali di cemento isolati. I visitatori non capirebbero come le SS avevano diviso il campo in settori delimitati: si troverebbero davanti soltanto un’incomprensibile foresta di pali». Diverso il dramma posto dalla conservazione delle tonnellate di capelli che si vanno deteriorando. Ipotesi di restauro si sono alternate a quelle di seppellirle: per il momento si è deciso di conservarle così come sono, senza interventi. «Credendo fortemente nella potenza evocativa del Luogo stesso sono convinto che l’opzione più sensata sia il minimalismo. Proprio come il silenzio è spesso il miglior compagno di una visita».

RITORNA SPESSO tra le pagine un appello cocente alla conservazione del Luogo senza trasformarlo in una sorta di parco multimediale sulla Shoah. L’aspetto didattico, le visite con l’audioguida aiuterebbero una maggiore comprensione del Luogo? La risposta di Cywinski è decisa: «Le persone non vengono qui per vedere lo schermo più interattivo del mondo. Se uno schermo del genere venisse installato intralcerebbe l’esperienza che è la cosa più importante. Nasconderebbe la verità e per questo dovrebbe essere rimosso». Resta, almeno, una questione in sospeso: in alcuni punti di Birkenau sul terreno vi sono piccoli oggetti bianchi che paiono sassolini. Si tratta di frammenti di ossa. Che farne? Concedere sepoltura e riposo? Come non comprendere l’angoscia degli ebrei ortodossi che li vedono? «Le persone si trovano a confrontarsi con un enorme problema: cosa fare per ossequiare la Legge in un luogo dove è stata trascurata. In altre parole come normalizzare qualcosa che è decisamente insolito».

La risposta migliore «è che questo luogo non deve essere normalizzato. La differenza è tra impossibilità e divieto. Nessuno ha diritto di normalizzare questo Luogo. Ma non è più una risposta religiosa. È un’affermazione ideologica».
È possibile effettuare una sepoltura ma quei resti perderebbero il loro significato: «Sarebbero arrivate la pace e la quiete; qualcosa di buono nel caso di altre morti, ma insostenibile qui».