La memoria serve se non si riduce a retorica: solo allora guida le azioni in modo che queste non siano in contraddizione con le parole. Nel mondo senescente e formalistico in cui viviamo, invece, la celebrazione della sconfitta del nazifascismo (la liberazione il 25 aprile e l’entrata in Auschwitz dell’Armata Rossa il 27 gennaio), sostanza della nostra Repubblica, rischia di ridursi a forma poiché convive contraddittoriamente con una demagogica e ambigua «cultura del dialogo», che invita, in nome della libertà d’opinione, a «dialogare» con repubblichini, negazionisti, evoliani fascio-esoterici che glorificano coi vari culti del sangue e del suolo le radici culturali dello sterminio di massa a sfondo razzista. Se Louise Richardson, neo-rettore dell’Università di Oxford, rivendica oggi questa torbida disponibilità al dialogo come un sublime atto illuministico («La Repubblica», 18 gennaio 2016), ciò accade in conseguenza del moralismo antipolitico affermatosi in Europa con la liquidazione dei blocchi contrapposti e del sistema di valori e antivalori a ciò connessi. Niente è più giusto o sbagliato, umano o disumano. Non ci sono che «opinioni», tutte ugualmente sostenibili e da discutere, a fronte di un unico valore trasversale e intoccabile: l’ordine e il legalismo, elevati a massimo ideale politico cui si può aspirare.

Profezie tibetane

Grazie alla schiuma tossica del «dialogo» e del legalismo bipartisan, prodotta dal convergere di scorie diversissime (dall’ossessione della sicurezza e dei confini alla retorica anticamorristica in nome della legge, dell’abilmente post-politico Saviano, su cui vedi l’ottimo Alessandro Dal Lago Eroi di carta, Manifestolibri), si è finito per dare della lotta resistenziale l’immagine torbida e confusa di una guerra civile i cui morti, fascisti e partigiani, nazisti e vittime dei nazisti, sarebbero tutti uguali. La nostra memoria delle ricorrenze convive dunque con l’oblio delle distinzioni. Celebriamo il giorno della memoria, eppure non processiamo per apologia di reato – come secondo la Costituzione dovrebbe avvenire – la rivista «Eurasia», intitolata all’idea nazista che gli «eurasiatici» Arii siano la culla storica e l’officina genetica della cosiddette razze superiori.

Claudio Mutti, direttore della testata, dedica infatti un ammirato saggio, Le SS in Tibet (edizioni Effepi, 2011), alle esplorazioni condotte in questo luoghi per volontà di Himmler dalle SS al fine di «provare» l’origine ariana dei tedeschi. Il livello delle «prove» descritte nel libro è, tanto per capirci, quello delle «profezie» rese ai nazisti dai tibetani (www.claudiomutti.com/): «Di lì a poco si sarebbe realizzata la predizione del veggente tibetano che aveva detto a Schäfer: “Verranno gli uomini volanti e ci sarà una grande catastrofe. Qualcosa di terribile accadrà nelle terre degl’Inglesi e dei Tedeschi. Vi sarà una scintilla enorme e anche la nostra religione ne sarà colpita”»). In una intervista dal titolo Olocausto e libertà di ricerca (http://www.claudiomutti.com/) Mutti liquida la Shoah come una lucreziana superstizione (la chiama «religio holocaustica») ed afferma che in realtà dai nazisti gli ebrei furono solo «maltrattati»; non tralascia poi di precisare in altra sede che coloro che oggi si fanno chiamare ebrei sono in realtà discendenti della stipe biblica di Gog e Magog, mitici barbari attentatori della civiltà del Vecchio Testamento. Il destino delle SS magicamente rivelato da profeti tibetani; l’essenza barbarica degli ebrei provata da un ragionamento che rimette in pista il concetto ascientifico di razza per applicarlo a miti biblici non più sostenibili dell’età di Matusalemme.

Impossibile confronto

Di simili argomenti potremmo ridere come si fa di superstizioni e oroscopi, se non fosse che essi foraggiano azioni e realtà politiche attuali (dalla greca Alba dorata alla Guardia Nazionale ungherese, dalla tedesca come Pegida ai gruppi della destra radicale neofascista italiana). Noi rinunciamo a legare le nostre affermazioni – l’antifascismo come base della Repubblica affermato dalla Costituzione e ridotto a rito annuale – alle nostre azioni, visto che non incriminiamo le forze sinora da me nominate («Eurasia» e tutti suoi contributori, le Edizioni all’Insegna del Veltro, il Centro Studi La Runa, il sito internet EreticaMente) per apologia di reato, ma lasciamo che continuino ad alimentare azioni e realtà politiche di assoluta pericolosità. Abbiamo forse dimenticato che le idee nazifasciste sono state azioni di sterminio?

Per questo – per il nesso che lega le idee alle azioni – oggi ci rifiutiamo di dialogare con i sostenitori di massacri in nome del cosiddetto Stato Islamico, e riteniamo necessario tappare loro la bocca, oscurandone siti internet e propaganda. Se, come è giusto, imbavagliamo i razzisti islamici, perché dovremmo «dialogare» con chi professa principi in base a cui ci hanno torturato e sterminato nel 1938-44? Nella giornata della memoria dovremmo ricordare anzitutto che il nazifascismo non è stato né poteva essere battuto col dialogo poiché non ha alcuna sostanza dialogica: questa ideologia non ha affermato altro che il diritto della forza a dominare e distruggere. Se almeno in parte siamo sopravvissuti ad Auschwitz, ciò è avvenuto solo grazie alla forza che abbiamo saputo opporre a chi aveva affermato il proprio diritto a distruggerci: se non avessimo preso le armi, ci sarebbe riuscito.

Di fronte al convegno sulla Siria organizzato presso l’Hotel Galileo di Milano dall’estrema destra europea, cui non si è vergognato di partecipare l’ex ministro ciellino Mario Mauro, l’Anpi ha reagito ricordandoci che i principi nazifascisti non sono un’opinione ma un reato (con la petizione Mettiamo fuorilegge i nazifascisti, che invito caldamente a firmare su change.org), il che è verissimo. D’altronde, presso il Dipartimento di storia, culture e religioni dell’ateneo in cui insegno, l’università «La Sapienza» di Roma, si è svolto un convegno (Relazioni pericolose. La storia delle religioni italiana e il fascismo, 3-4 dicembre 2015) che si proponeva di reagire con le armi della ricerca storica e del dialogo ad un colloquio dedicato un anno fa ad Evola da storici delle religioni di estrema destra per sancirne la grandezza culturale praticando il solito giochino di sganciare la dimensione dell’attività intellettuale da quella della responsabilità politica (L’eredità di Julius Evola, 29 novembre 2014).

L’astrazione dei diritti

Invitata al convegno antievoliano, mentre denunciavo pubblicamente le testate e gli autori parzialmente mappati in questo articolo, l’evoliano Giovanni Casadio (che lo Stato stipendia come professore ordinario di storia delle religioni presso l’università di Salerno) mi ha violentemente interrotta in nome del diritto del Mutti ad esprimersi e delle sedi editoriali da lui gestite ad esistere. Ma quale diritto? L’Anpi ci ricorda che queste idee sono un reato e non un diritto; la maggior parte dei miei colleghi universitari, invece, ha sminuito l’episodio o deprecandolo privatamente o addirittura dicendo che sì, alcuni sono o sono stati fascisti, ma in fondo tanti altri sono stati democristiani e tanti sono oggi renziani. Cosa non va in questo commento, di cui per carità di patria non rivelo l’autore? Cosa non va in un convegno che cerca di reagire con le armi della ricerca storica alla rimessa in pista di valori nazifascisti? Non va appunto il fatto che in entrambi i casi cultura e ricerca storica sono ridotte a parole sganciate dalle azioni fino al punto di tollerare, in nome del cosiddetto «dialogo», una rivendicazione pubblica e verbalmente violenta, in una sede universitaria e quindi istituzionale, del diritto di opinione nazifascista.

Abbagli conformisti

Questa contraddizione permette al sito EreticaMente di proclamarsi baluardo del «Libero Pensiero», e al suo contributore Gianfranco De Turris di presentare gli accademici evoliani come studiosi «anticonformisti». Nessuno ha il coraggio di chiamare le cose coi loro nomi, né i fascisti, che vivono nei loro cunicoli affermando e dissimulando, né i post-antifascisti, che non incriminano per «dialogare».

La ricerca storica come strumento di battaglia culturale ha senso solo se gli intellettuali tornano a collegare le parole alle azioni, a scegliere tra valori disumani e valori umani, a prendere posizione, a combattere e non «dialogare» (?) con chi afferma l’etica della forza bruta. La ricerca storica ha senso e dignità se si impara da coloro che, come i membri dell’Anpi, hanno appreso sulla propria pelle, rischiandola, la limpida ed altissima verità per cui le parole sono vere se corrispondono alle azioni. Vogliamo che la memoria non sia una formula retorica, un puro rito? Agiamo. Uniamoci all’Anpi per ampliare l’inventario di scritti e posizioni che debbono essere perseguiti per apologia del nazifascismo, compiliamo insieme il dossier, impediamo il risorgere di questi principi con gli strumenti legali – qui si che la legge è sostanza – di cui uno stato di diritto faticosamente nato dalle ceneri di quei regimi si è dotato: facciamolo per il nostro presente, per il senso delle nostre parole.