Nel 1863, sulle colline di Gettysburg, là dove si era combattuta una delle battaglie più sanguinose della guerra civile, Abraham Lincoln pronunciò un discorso passato alla storia nel quale annunciava una sorta di rifondazione degli Stati Uniti: «Possiamo qui decidere che la nazione, con l’aiuto di Dio, trovi una nuova nascita nella libertà, e che il governo del popolo, attraverso il popolo, per il popolo, non scompaia dalla terra».

Ad oltre un secolo e mezzo dalla promessa fatta dal presidente che abolì la schiavitù, in una delle fasi più drammatiche della recente storia del paese, al termine dell’«era Obama», mentre la rabbia dei «piccoli bianchi» alimenta la corsa di Trump e le vite dei giovani neri stroncate dalla violenza poliziesca sembrano contare ogni giorno di meno, la riflessione di uno dei più importanti intellettuali afroamericani degli ultimi anni riparte proprio dal «discorso di Gettysburg». Fin dalle prime pagine di Tra me e il mondo (Codice Edizioni, pp. 208, euro 16), sorta di lunga lettera dolente e appassionata indirizzata al figlio adolescente Samori, Ta-Nehisi Coates ci tiene, infatti, a chiarire come le ferite del presente siano in realtà il prodotto di una realtà che contraddistingue il paese dalla sua nascita.

1920
A quanti si interrogano sul fatto che l’America abbia tradito o meno quella promessa di libertà sulla quale ama immaginare di essere stata fondata, il quarantenne scrittore e giornalista replica spiegando come «il problema non è se Lincoln intendesse davvero ’governo del popolo’, ma ciò che il nostro paese ha fatto politicamente del termine popolo nella sua storia. Nel 1863 quel popolo non includeva tua madre, o tua nonna, e neppure me, o te».

Per Coates, nato in una zona popolare di Baltimora, figlio di un ex militante delle Pantere Nere che lo ha cresciuto nel culto dei libri e della lettura, e arrivato alla scrittura e alla collaborazione con importanti testate come l’Atlantic Monthly, dopo aver frequentato per un po’ la Howard University di Washington, il più importante ateneo del paese per la cultura nera, l’unico modo per affrontare la situazione è quello di dare un nome alle cose. Anche se è un nome che fa paura. «Gli americani credono nella realtà della ’razza’ come a una caratteristica che appartiene in modo definito e indubitabile al mondo naturale», spiega, prima di aggiungere come «il razzismo è la conseguenza necessaria di questa condizione inalterabile». Perciò, oltre due secoli fa, «individui cresciuti nell’assurda, tragica ed errata convinzione di essere bianchi», hanno pensato di poter «organizzare una società» su queste basi.

Vincitore dei maggiori premi letterari statunitensi, il libro di Ta-Nehisi Coates raccontata, alternando tenerezza, determinazione e rabbia, attraverso una biografia familiare che si trasforma via via in memoria collettiva, quella che è prima di tutto una storia scritta sui corpi. Corpi in catene, oppressi e offesi dalla schiavitù, umiliati dalla segregazione, costretti nei ghetti, brutalizzati dagli uomini in divisa, linciati, mutilati, uccisi. Quasi la cronaca dell’esperienza quotidiana dell’ingiustizia che i neri continuano a fare e che lega il ricordo dello schiavismo alle morti violente di oggi.

Se il giovane autore è stato paragonato a figure quali James Baldwin e Malcolm X, ciò che lega Tra me e il mondo ai grandi nomi della rivoluzione nera degli anni Sessanta, è in realtà soprattutto l’appello alla consapevolezza. Ancora una volta, la rivolta non può cominciare che dal racconto del volto autentico del paese, dal ritratto di quell’America bianca che è «un’associazione schierata a protezione del suo potere esclusivo per il controllo dei nostri corpi».

Per porre fine a questa «lunga guerra contro il corpo nero», che coincide per certi versi con la storia stessa degli Stati Uniti, c’è bisogno che l’America si guardi allo specchio, visto che «riconoscere questi orrori significa distogliere lo sguardo dall’immagine più luminosa che il tuo paese ha sempre cercato di spacciarti, per posarlo su qualcosa di più torbido e sconosciuto». Per la maggior parte degli americani è «ancora troppo difficile», ma è questo il compito che per l’intellettuale di Baltimora spetta ora a suo figlio come a tutti i giovani afroamericani.