Circola una strana, imprevista e imprevedibile felicità nel romanzo con cui Arundhati Roy ritorna alla scrittura narrativa a venti anni di distanza da Il dio delle piccole cose, pubblicato nel 1997 in Italia sempre da Guanda. A partire già dal titolo, Il ministero della suprema felicità, nonostante sia dedicato agli inconsolabili e nonostante le questioni affrontate in esso: l’India contemporanea, ancora una volta, con tutte le sue infinite declinazioni di religioni, caste e varie forme di intoccabilità, le battaglie dei contadini contro i progetti che li cacciano dalle loro terre, il Kashmir e la lunga guerra terribile e atroce ancora in corso, descritte con una coralità nonostante tutto lieve e, a volte, sorridentemente ironica, in cui i molti personaggi del romanzo sono toccati da una determinazione alla felicità che li rende cari e preziosi a chi legge.

A COMINCIARE dalla splendida figura dell’hijra Anjum, con cui ha inizio il romanzo: il termine hijra, di difficile traduzione – e giustamente la traduttrice della edizione italiana Federica Oddera non lo traduce, optando per questo come per altri termini per la dizione originale, anche se a volte ciò rende complessa la lettura – sta a indicare nella lingua urdu chi nasce con un corpo ermafrodita e sceglie di vivere come una donna. Tale è Anjum che lascia la famiglia d’origine per andare nella Casa dei Sogni, il palazzo dove vivono in comunità altre hijra sotto la guida di una ustad, una guru. Non che questo risolva il conflitto interiore della propria scelta sessuale e infatti uno delle altre hijra dirà ad Anjum che «India e Pakistan si combattono dentro di noi».

Ma insieme a loro, che rivendicano una lontana discendenza risalente agli eunuchi di palazzo dell’antica Delhi, Anjum persegue un desiderio di felicità che può accadere anche tra le tombe del cimitero in abbandono in cui vivrà poi una parte della sua vita, dopo essere sopravvissuta alla strage perpetrata ai danni dei musulmani nello stato del Gujarat, dove Anjum si reca, inconsapevole di quanto sta per accadere, per far togliere un presunto malocchio alla figlia d’adozione.
L’orrore dell’ordalia si abbatte su Anjum che si salva unicamente perché uccidere uno hijria porta sfortuna e la sua vita è garanzia di vita per chi ha ucciso, cosa di cui Anjum è penosamente consapevole. Ciò accresce il suo lutto selvaggio, che trova requie solo nel cimitero abbandonato in cui è sepolta la sua famiglia e in cui vivi e morti sono entrambi vividamente presenti e parlanti alla sua mente: lo scorrere del tempo e le cure affettuose di chi le vuole bene le permetteranno di incrociare Tilo, altra figura guida della narrazione, cui è dedicata la seconda parte del romanzo.

S. Tilottama, abbreviato in Tilo da chi le è vicino, è una donna la cui storia si intreccia a quella di Musa, originario del Kashmir, studente insieme a lei alla Scuola di Architettura di Delhi e poi dalla fine degli anni Ottanta attivo nella resistenza del proprio paese all’occupazione indiana. Tilo è occhio esterno ma non per questo estraneo a quanto accade nel Kashmir, che la coinvolge e la interroga su quanto le appare come reale e quanto è davvero reale.

NEL TENTATIVO DI RISARCIRE e risarcirsi dell’orrore, prende con sé Jeeben, una bimba nera apparsa apparentemente senza un perché su un marciapiede di Delhi, la cui natività costituisce motivo di speranza per tutta la moltitudine di personaggi che abitano questo romanzo. Tilo insieme all’hijra Anjum si dedicherà a crescere Jeeben insieme alla varia comunità che le attornia e ciò renderà possibile lo stare al mondo per ognuno di loro convivendo con i proprio fantasmi.
Il ministero della suprema felicità (Guanda, pp. 496, euro 20) è infatti un romanzo dell’adultità, assai diverso dall’incanto dell’infanzia, pure con i suoi orrori, de Il dio delle piccole cose.
Vi è una pagina del romanzo di allora che costituisce probabile nucleo generatore e anticipazione di quanto sarà poi al centro delle riflessioni della scrittrice negli anni che sono stati dedicati a tracciare i fili assai complessi della narrazione de Il ministero della suprema felicità: quella in cui l’ispettore Thomas Mathew e il Compagno K.N.M. Pillai si incontrano prima che siano inviate le squadre di polizia a uccidere l’intoccabile che ha avuto l’ardire di violare per amore le regole delle caste e ciò avverrà di fronte agli occhi dei due bambini che da questo saranno segnati a vita.

L’ISPETTORE MATHEW e il sindacalista Pillai sono entrambi uomini che sanno come funziona il mondo e non hanno bisogno di molte parole per darsi reciprocamente il via libera, sapendo che non vi saranno smentite su quanto poi, inesorabilmente accadrà, perché «erano entrambi uomini che l’infanzia aveva abbandonato senza lasciare tracce. Uomini privi di curiosità. Di dubbi. Ciascuno a suo modo definitivamente, terribilmente adulto. Guardavano il mondo senza mai chiedersi come funzionasse: perché loro sapevano. Erano loro a farlo funzionare. Erano due meccanici addetti a due parti diverse della stessa macchina».
Ma è possibile divenire adulti senza perdere il proprio cuore bambino, senza divenire meccanici addetti al funzionamento apparentemente inesorabile e ineluttabilmente atroce della macchina della Storia? Sia l’hijra Anjum che Tilo sono personaggi appartenenti a una moltitudine di donne e uomini, bambini, anziani che vivono e muoiono sui marciapiedi di Delhi, descritta mirabilmente da Arundhati Roy nei suoi caratteri estremi – ma non poi così distanti da altre città del mondo – di guerra combattuta dai ricchi contro i poveri, sempre più poveri gli ultimi, sempre più ricchi i primi.

SE NEL PRIMO ROMANZO era la Storia con la maiuscola a irrompere drammaticamente nelle vite dei protagonisti, qui la storia è dovunque e non ha bisogno di essere nominata né evocata se non attraverso gli occhi di ogni singolo personaggio, facendone così una narrazione meridiana come nel caso dell’11 settembre visto in televisione dalle hijra della Casa dei Sogni. Lo scorrere della storia in mille fiumi che attraversano e travolgono con ferocia inusitata le vite dei mille personaggi è qualcosa cui Arundhati Roy oppone in questo romanzo esistenze fatte di movimenti unici e speciali di felicità, grazie ai quali è possibile non trovare consolazione, ma modi per vivere insieme il bene dell’amore reciproco. Memorabili e bellissime le pagine della notte passata insieme da Tilo e Musa, scherzando lievemente e amandosi, pure se entrambi sono consapevoli della guerra, della morte, del terrore che sono sulla soglia.

L’ARCHITETTURA complessa della narrazione, volta a tratteggiare un mondo difficile quanto lo è quello attuale, può per un verso ricordare Giochi sacri di Vikram Chandra e per un altro Underworld di DeLillo, entrambi capaci di narrare con grande potenza narrativa il primo la Spartizione tra India e Pakistan, gli Stati Uniti e il loro correre verso la distruzione il secondo.

Il romanzo di Arundhati Roy si distingue da entrambi per la ferma determinazione alla costruzione di una particolarissima arte della felicità, di un castello interiore – il pensiero va a Teresa d’Avila – in cui preservare quanto di migliore e singolare vi è in ogni vita. A partire dalle relazioni con chi si sceglie di condividere amore, amicizia, avventure che possono essere anche il dormire su un marciapiede come il costruire la propria casa – addirittura una pensione, la pensione Jannat, ovvero Paradiso – tra tombe abbandonate. Oppure il vivere in un Kashmir devastato dalla guerra, dalla paura e dalle torture confidando comunque nell’Azadi, la libertà. Ciò è possibile solo insieme ad altri e ad altre, mai da soli, altrimenti vi è solitudine e paura e morte, se non di fatto, certamente interiore.

Come nel caso del personaggio che appartiene ai servizi segreti e che racconta la storia dal suo proprio punto di vista, perdendosi progressivamente ma inesorabilmente nelle nebbie dell’alcool e dell’isolamento, ma sperando in un miglioramento che deve avvenire. Che poi ciò accada nei modi descritti da Musa, ovvero quelli di un’autodistruzione dei potenti perché si hanno occhi per guardare quanto sta avvenendo e voci e corpi per ricordare quanto avvenuto, è cosa dell’avvenire. Intanto, come scrive Anna Achmatova citata nel romanzo, «dalla felicità io non guarisco».