Nel 1962, un gruppo di giovani anarchici milanesi e socialisti dissidenti rapì il viceconsole spagnolo di Milano, per salvare la vita a Jorge Conill Valls, che rischiava la pena di morte in Spagna per alcuni attentati dimostrativi del tutto innocui contro il regime franchista. Portato in una cascina vicina al confine svizzero, il viceconsole fu liberato quando si diffuse la notizia che la pena di morte a Conill Valls era stata commutata in trent’anni di prigione. Poco tempo dopo, i rapitori furono arrestati e processati a Varese. Condannati a pene irrisorie, vennero subito scarcerati.

Non era la prima volta che un gruppo di anarchici era assolto da imputazioni gravi. Così avvenne nel 1877, quando Errico Malatesta e Carlo Cafiero furono liberati dopo la rivolta del Matese, in cui era morto un carabiniere. Ma un aspetto singolare della storia del 1962 è la motivazione di una sentenza così mite, cioè «i particolari motivi di natura morale e sociale» del sequestro. Oggi, dopo la lotta armata degli anni Settanta e Ottanta, le leggi speciali e l’ossessione del terrorismo, un giudizio simile non sarebbe possibile. Non solo: qualsiasi violenza politica sulle cose, anche quando non comporta alcun danno alle persone, tende a essere giudicata alla stregua di “devastazione”, se non di attentato terroristico (come nella sentenza per il danneggiamento di bancomat durante il G8 di Genova). Ma questo significa anche che i giudici di cinquant’anni, alla pari di quelli del 1877, si ergono come giganti del diritto, liberale e garantista, rispetto alla giustizia cieca e vendicativa di oggi.

Le terribili conseguenze di una legislazione penale d’emergenza si rivelano nel 1998 con il suicidio di Edoardo Massari e Maria Soledad Rosas, rinviati a giudizio per «ecoterrorismo» e «associazione sovversiva» in seguito al danneggiamento di alcune strutture Tav della Valsusa. Il loro compagno Silvano Pelissero sarà condannato, dopo un processo largamente indiziario, a 7 anni e mezzo di reclusione. La Corte di Cassazione giudicherà insussistenti le imputazioni maggiori e la condanna verrà ridotta a poco più di tre anni. La lettura della stampa dell’epoca dà un’idea dell’impasto di invenzioni, immaginazione forcaiola e ossessione penale che portò all’imputazione e alla morte dei due giovani anarchici («mi dispiace», fu il commento di un sostituto).

La vicenda di quindici anni fa sembra tornare oggi con l’arresto, ai primi di dicembre del 2013, di quattro attivisti No Tav (Chiara Zenobi, Niccolò Blasi, Claudio Alberto e Mattia Zanotti), accusati dalla procura di Torino di aver fatto irruzione, nel maggio precedente, in un cantiere No Tav di Chiomonte danneggiando alcune attrezzature. Le accuse sono attentato con finalità terroristiche, atto di terrorismo con ordigni micidiali ed esplosivi, detenzione di armi da guerra, danneggiamento. Di conseguenza, i quattro sono reclusi, nelle case circondariali di Ferrara, Alessandria e Roma in un regime di massima sicurezza, coni riduzione delle ore d’aria, isolamento e censura, nonché, per i due detenuti ad Alessandria, divieto di comunicare tra loro. Come ha scritto un giovane alla madre, «ci è precluso ogni orizzonte, in senso letterale: infatti davanti alle finestre ci sono dei grossi pannelli di plexiglass opaco con l’effetto di castrare l’ispirazione e l’immaginazione». Recentemente gli avvocati hanno denunciato le condizioni della detenzione.

Il carcere di massima sicurezza è sempre disumano. Nel caso dei quattro la disumanità è esaltata dalla sproporzione con l’evento che ha causato le accuse e soprattutto con le sue finalità. Comunque si giudichi l’azione di Chiomonte, i quattro giovani non hanno torto un capello a nessuno e le loro motivazioni erano del tutto disinteressate. Un giudice di cinquant’anni fà vi avrebbe visto probabilmente un valore morale e sociale e li avrebbe mandati liberi. Che questo oggi non sia pensabile spiega come l’idea di giustizia, nel nostro paese, sia stata consumata dall’ossessione della legalità.

In realtà, nella vicenda di Chiomonte emerge pienamente la portata della legislazione introdotta nel 2005 per contrastare il terrorismo “islamico”. Non si tratta solo dei controlli personali e telematici che colpiscono soprattutto gli stranieri, dell’inasprimento delle pene e delle misure di fermo e arresto. Si tratta soprattutto degli abusi giudiziari facilitati dalle norme sul terrorismo e dalla definizione di un fuoco d’artificio o di una bottiglia Molotov come “ordigni micidiali” o “terroristici”. Qui sono in gioco la libertà del dissenso e il riconoscimento di alcune forme di conflitto, come il danneggiamento di cose e attrezzature, che fanno parte della tradizione dei movimenti operai e radicali. Con la logica seguita dalla solerte procura di Torino, tutti i movimenti sociali e di massa degli anni Sessanta e Settanta sarebbero considerati terroristici.

La vicenda dei quattro giovani è una finestra spalancata sulle contraddizioni del sistema giudiziario e soprattutto sulla discrezionalità delle procedure accusatorie. Persone che hanno lanciato petardi e fatto irruzione in un cantiere sono accusate di terrorismo e sottoposte al carcere di massima sicurezza. Se invece qualcuno, senza aver commesso alcun reato, viene portato in caserma e di lì a poco muore in ospedale (penso a Giuseppe Uva), l’indagine si perde nelle sabbie mobili ed è necessario, dopo proteste e polemiche, un intervento dall’alto per riaprirla. Doppiezza di pesi e misure che la dice lunga sul funzionamento della giustizia e sulla cultura penale in Italia.

In un regime di depressione economica e politica e di giustizialismo dilagante è facile dimenticarsi dei quattro militanti No Tav e delle condizioni in cui sono detenuti. Ma questo non deve accadere. Perché in gioco c’è la loro vita. Ma c’è anche il destino del conflitto politico in un paese implacabile solo con le minoranze e i dissenzienti.