Christophe Charle è uno dei più importanti storici europei, autore di ricerche fondamentali sulle classi dirigenti e sugli intellettuali francesi ed europei in età contemporanea. Considerato un maestro della «storia sociale» – il suo manuale di sintesi sulla Francia ottocentesca è un vero classico – ha saputo estenderne i confini fino alla dimensione culturale. Il dialogo costante con la sociologia, e in particolare con gli indirizzi definiti da Pierre Bourdieu e dalla sua scuola, non gli ha impedito di trarre beneficio dagli attrezzi proposti dalle altre discipline umanistiche e scienze sociali.

Fare «storia culturale» per Charle significa in primo luogo ambire a un approccio critico, a una sorveglianza auto-riflessiva sul mestiere di storico, che come tutto il lavoro di ricerca è sottoposto a un duplice condizionamento. Da un lato tutta una serie di vincoli «esterni» sono posti agli studi storici dai contesti di produzione della ricerca (le istituzioni culturali) e di circolazione dei suoi risultati (il mercato editoriale e mediatico, l’insegnamento): basti pensare al problema, oggi drammatico, del finanziamento pubblico, o a quello dei canali di pubblicazione dei risultati degli studi per rendersi conto del carattere anacronistico e illusorio dell’autorappresentazione in termini umilmente artigianali e disinteressati del lavoro storico, che in realtà si svolge in un universo strutturato, gerarchizzato e conflittuale. Dall’altro lato le stesse modalità «interne» di conduzione delle ricerche (temi, fonti, tecniche, concetti), solitamente pensate come «disincarnate» e frutto di un’idealistica libertà dello studioso, rappresentano invece opzioni in gran parte ispirate da un vero e proprio «inconscio accademico», un «impensato» sistema di relazioni di dominio culturale che orienta le scelte e che, ad esempio, attraverso la riproduzione irriflessa di abitudini e pratiche impone oggetti e metodi «legittimi», privilegia la dimensione nazionale, frammenta gli studi in isolotti sub-disciplinari e specialismi non comunicanti, atomizza individualisticamente le indagini.

Oltre la scolastica

Nonostante l’indubbio interesse, i libri di Charle non sono stati tradotti in italiano, con l’eccezione de Gli intellettuali nell’Ottocento (del 1996, tradotto dal Mulino nel 2002) e, molto prima, del breve studio sugli scrittori francesi e il caso Dreyfus Letteratura e potere (del 1977, edito da Sellerio nel 1979). Si potrebbe cominciare a recuperare il terreno perduto a partire dal suo saggio sulla «breve storia della modernità» (Discordance des temps, uscito nel 2011) o dalla sua ultima pubblicazione.

L’editore parigino Colin ha infatti da poco dato alle stampe Homo historicus una raccolta di saggi ed interventi che rappresenta una stimolante presa di posizione sul ruolo e gli indirizzi della storiografia. Il volume si presenta come una «difesa critica e autocritica» dell’homo historicus, cioè non semplicemente dello storico di professione, chiuso nel suo «habitus scolastico», ma dello studioso che pur indagando vicende anche remote resta «in ascolto della storia che vive», del presente. Il volume è dedicato alla memoria di Pierre Bourdieu e di Eric Hobsbawm ed è ispirato al ricordo del primo maestro di Charle, il grande storico marxista Pierre Vilar, del quale viene ripresa, nelle prime pagine, l’arguta messa in guardia dai fraintendimenti prodotti dalle somiglianze del «commercio di storia» rispetto ai commerci ordinari, come quello dei detersivi. Se l’accostamento può sembrare irriverente, basti ricordare che nel linguaggio dell’odierna valutazione della ricerca, i risultati delle indagini si chiamano «prodotti». Tuttavia, a differenza dell’uso linguistico promosso da una macchina valutativa tesa sostanzialmente al disciplinamento e al taglio delle risorse, Vilar utilizzava l’analogia in termini critici, mettendo in guardia dalla tendenza a spacciare le mere «novità» che compaiono copiose sul «mercato» della storia per vere e proprie «innovazioni» scientifiche.

La svalutazione neoliberale

L’atteggiamento critico di Charle sulle modalità di organizzazione della ricerca nelle scienze storico-sociali non si spinge però fino al «catastrofismo» oggi di moda. Lo storico francese denuncia esplicitamente il ricorrente discorso sulla «crisi» definitiva dei saperi sulla società presenti e passate come espressione ideologica dello spirito di tecnocrati in mala fede e di studiosi resi pessimisti dalla svalutazione della ricerca implicita nelle «riforme» dell’era neo-liberale (sui cui «danni» nel 2007 ha curato un volume per Syllepse). La riflessività dello storico, dunque, non si risolve nichilisticamente nel relativismo, nella denuncia del «potere» o della «politicizzazione», nel senso di inutilità, vanità conoscitiva e inferiorità rispetto alle «vere» scienze. È invece in primo luogo capacità di contestualizzazione sociale e storica delle proprie pratiche, nel tentativo di creare le condizioni per sottrarsi alla forza dei condizionamenti, raddoppiata dal loro procedere per vie spesso inconsapevoli. Farsi storico di se stesso, dei propri oggetti e dei propri approcci, delle proprie apparentemente innocenti abitudini quotidiane, sul modello dell’esercizio di auto-analisi proposto dieci anni fa dallo stesso Bourdieu (Questa non è un’autobiografia, Feltrinelli 2005), può avere effetti liberatori sulla ricerca. Ma questo itinerario in qualche modo freudiano, che introduce elementi di consapevolezza sui meccanismi inconsci della rimozione dei condizionamenti, dovrebbe essere accompagnato da un’azione collettiva: sia come pratica di ricerca non individuale, sia come intervento politico che cambi i rapporti di forza interni al campo storiografico e punti a mutare le logiche di relazione con gli altri campi del sociale (il potere politico o l’universo dei media, ad esempio).

Nella seconda sezione del volume, Charle propone una serie di antidoti per contrastare la riproduzione meccanica delle pratiche culturali imperanti nel campo storiografico. In primo luogo il valore appena delineato di una storicizzazione del proprio sapere e dei propri strumenti, che permette una distanziazione critica nei confronti delle tendenze dominanti nel presente. In proposito, nella terza sezione del libro sono proposti diversi profili di importanti studiosi di storia (fra i quali Hobsbawm e Wehler), come contributo all’analisi degli effetti storiografici della passione politica e, viceversa, dell’influenza della ricerca sulle modalità di engagement. Secondariamente, il rifiuto del particolarismo disciplinare, che consente, per fare solo un esempio, attraverso gli strumenti sociologici di comprendere la dimensione relazionale della produzione culturale, che è sempre l’esito di conflitti fra gli agenti e fra i campi. Infine, la comparazione: Charle rimane fedele alla lezione di Marc Bloch e ritiene che la storia di una società non si possa comprendere, anche nei suoi aspetti più originali, se non nel confronto con altri contesti. Per questo ha scritto storie «europee» degli intellettuali, dei teatri e delle «capitali culturali» in Europa, ma anche della «crisi delle società imperiali» nella prima metà del Novecento, il processo che portò le rivalità inter-europee allo scatenamento di due conflitti mondiali e poi alla progressiva marginalizzazione del Vecchio continente dopo il 1945 (un altro libro che meriterebbe una traduzione).

A queste indicazioni generali, Homo historicus affianca diverse opzioni sul piano più propriamente metodologico: darsi alla «prosopografia», cioè a ricerche basate sulla biografie collettive, che superino l’insistenza sui casi esemplari, come i «grandi» uomini politici o intellettuali, a favore di un approccio più largo, necessariamente quantitativo ma non ridotto ad esso, che favorisce gli scambi, le ricerche collettive e la stessa comparazione, perché porta alla costruzione di basi di dati e di documenti da mettere in comune e aperte ad usi molteplici; non rifiutare l’apporto degli studi letterari e non temere la sfida della «storia culturale», essa stessa prodotto dell’allargamento del «sociale», per quanto non immune da derive «culturaliste» che fanno di ogni pratica sociale un «testo» riducendo i documenti storici a costruzioni letterarie o a strumenti di potere, oppure ricercano spiegazioni in termini di lunghissime invarianti «culturali»; fare attenzione alla circolazione culturale nei diversi livelli sociali e fra diverse società, e non solo al rapporto fra produzione e ricezione (fra gruppi sociali, fra discipline, fra universi linguistici), dunque privilegiando il ruolo cruciale che giocano i mediatori.

Specialismi esasperati

In conclusione, nell’intervista che chiude il volume, Charle riconduce la «regressione storiografica» corrente, fatta di specialismi esasperati, di assenza di dibattito, di chiusura nazionale, alla fase di «regressione intellettuale» più generale, dovuta all’offensiva politica contro le scienze sociali e, in particolare, contro la storia sociale. Ribadisce quindi il valore centrale del «ragionamento storico» contro il paradigma oggi dominante, quello del meccanicismo economicistico: un valore non solo scientifico, che fa della storiografia ben intesa uno «strumento necessario allo spirito critico di fronte a un discorso politico dominante che fa leva sull’emotività e non sulla razionalità».