Se ne è andato a 97 anni, dopo una vita passata a studiare l’Italia, l’Europa e, in misura di molto minore, la storia mondiale. Soprattutto si era concentrato sulla nostra Penisola, delle cui vicende più recenti era divenuto un raffinato conoscitore. Denis Mack Smith, nato a Londra nel 1920, dopo essersi laureato a Cambridge, aveva conosciuto una lunga e fortunata carriera accademica, diventando membro di istituzioni prestigiose e celebrate, come la British Academy, l’All Souls College di Oxford, il Wolfson College.

IL SUO PROFILO INTELLETTUALE, e il suo stesso aspetto, entrambi al medesimo tempo dinoccolati, austeri ma anche divertiti, sembravano contraddistinguerne l’appartenenza a una élite di pensiero depositaria delle vestigia di grandezza dell’Inghilterra. Senza eccessive pretese egemoniche, ma con un calcolato aplomb oxfordiano. In realtà, proveniva da una famiglia di ceto medio, molto distante dalle classi dirigenti coloniali e dal notabilato che avevano contrassegnato la politica del suo Paese. Così come il suo liberalismo aveva accenti a tratti radicali.
L’Italia l’aveva conosciuta e amata sui banchi del college, per poi frequentarla, a guerra conclusa, in lungo e in largo, non prima di essersi laureato con una tesi dedicata al nostro Risorgimento. Il suo primo impatto fu con una nazione dilacerata dagli esiti del conflitto. A mediarne il rapporto concorse attivamente Benedetto Croce, che gli aprì i battenti di casa, la sua biblioteca e lo accreditò presso il suo nutritissimo gruppo di amicizie e conoscenze. Queste ultime, insieme ai ripetuti colloqui con Don Benedetto, svoltisi in una sorta di impasto tra italiano e napoletano, si sarebbero rivelate strategiche nella formazione del pensiero dello storico anglosassone. Il quale, dopo avere calcato gli archivi italiani, essersi impratichito con la nostra storiografia e acclimatato, ma non addomesticato, ai regimi culturali del paese, nel 1959, per la traduzione di Alberto Aquarone, pubblicò la sua Storia d’Italia, cento anni che andavano dall’unificazione al secondo dopoguerra. La casa editrice era Laterza, allora presieduta dalla figura carismatica di Vito, e il volume, destinato nelle sue numerose riedizioni a conoscere una straordinaria diffusione e un insperato successo di pubblico, fondò una sorta di canone narrativo delle vicende peninsulari. Si trattava di un lavoro che incontrò da subito la rigida opposizione di una cospicua parte degli studiosi italiani. Così nel caso di un indomabile Rosario Romeo, ma anche di Federico Chabod e dello stesso Gaetano Salvemini, che ben prima della sua pubblicazione avevano identificato, nella stessa struttura del testo, vizi di sostanza.

L’IMPRONTA al medesimo tempo divulgativa, assertiva e vivacemente critica era messa alle corde di un preponderante giudizio di superficialità, che gli veniva attribuito come stigma inemendabile. Gli si rimproverava di affastellare fatti e personaggi, senza badare troppo a coerenze di interpretazioni, privilegiando semmai il ricorso ai bozzetti in soggettiva e pervenendo a giudizi di valore scarsamente comprovabili e comunque difficilmente condivisibili.

L’ANEDDOTICA DI CONTRO ai grandi quadri interpretativi, in altre parole. Irritava anche la sua lettura del Risorgimento, al netto di mitografie cristallizzate ma anche con un angolo visuale attento alle sensibilità europee. Vito Laterza aveva colto le opportunità critiche e anche polemiche che il libro portava con sé, laddove queste si traducevano sia in una breccia rispetto all’acribia della storiografia di taglio più strettamente accademico sia a un mercato di lettori che reclamava opere nuove, innovative nel linguaggio e nei contenuti.
Denis Mack Smith stava dentro l’uno e l’altro registro, cosa che mantenne nella sua ricchissima produzione bibliografica che arriva fino agli anni più recenti. Di certo irritavano le sue conclamate simpatie per figure «rivoluzionarie» come Garibaldi e Mazzini, di contro ai giudizi severissimi nei confronti di Cavour, della classe politica liberale e, soprattutto, della monarchia sabauda, dipinta, soprattutto nella persona di Vittorio Emanuele II, come una struttura feudale e dispotica, quasi amorale, senz’altro reazionaria. Sul fascismo lo studioso avrebbe poi licenziato sia una corposa biografia dedicata a Mussolini, pubblicata nel 1981 che, una decina di anni dopo, una indagine sulle Guerre del Duce.

PRECEDENTEMENTE, aveva già aperto un vero e proprio conflitto nei confronti di Renzo De Felice, accusandolo di andare verso i pericolosi lidi di una eccessiva condiscendenza culturale verso il capo fascista. Per Mack Smith il problema di fondo rimaneva la fragilità delle élite liberali italiane. Da ciò, e dalla incompiutezza dei processi di modernizzazione, faceva derivare le fortune del fascismo. Dello storico britannico rimane la sua solida adesione al piglio narrativo tipico di certa scuola britannica. Ripresa dal suo più importante allievo, Christopher Duggan.