Ciò che mi interessa di più è l’invenzione della sicurezza alimentare – da quando abbiamo iniziato a prestare attenzione agli additivi chimici e alla qualità degli ingredienti – e il modo in cui è cambiata la nostra idea di «cibo salutare». La storia che racconto riguarda in parte il momento storico che ha innescato questi cambiamenti: la lotta per la sicurezza alimentare condotta negli Usa ai primi del Novecento.
Il libro The Poison Squad ripercorre le vicissitudini di un brillante chimico, testardo e devoto alla causa, impiegato in una posizione di basso profilo al Dipartimento per l’agricoltura, e che ha lottato per anni affinché anche negli Stati Uniti si attivassero controlli sugli alimenti. È la storia di una politica in molti casi avvelenata e di cibi incontestabilmente avvelenati, e narra di tutti i modi in cui una persona – come il chimico Harvey Wiley, che non si è mai arreso – può fare la differenza. Purtroppo, è anche il racconto di come talvolta persino le migliori intenzioni possano corrompersi, cosa che è avvenuta con i regolamenti sulla sicurezza alimentare. Ma per comprendere l’intero scenario occorre anzitutto guardare con realismo all’inizio di tutto questo, nel XIX secolo.

A METÀ OTTOCENTO molti cibi e bevande venduti negli Usa si erano guadagnati la fama di essere spesso poco sicuri quando non addirittura pericolosi: il latte ne è un esempio straordinariamente calzante. All’epoca i lattai, soprattutto quelli che rifornivano le città più popolose del Paese, scoprirono che si poteva guadagnare meglio annacquando e scremando il loro prodotto – la ricetta standard prevedeva mezzo litro di acqua tiepida ogni 250 ml di latte, dopo che la crema era stata schiumata. Per ovviare al colorito bluastro del liquido rimanente, i produttori iniziarono ad aggiungere agenti sbiancanti come il gesso di Parigi o il gesso comune e qualche volta persino un goccio di melassa per dare un colore più dorato e una consistenza più densa. Infine, per riprodurre lo strato superficiale di crema che avrebbe dovuto esserci, bastava una spruzzata di qualcosa di giallastro, a volte un bel purè di cervello di vitello.
La falsificazione e l’adulterazione dei cibi erano frequenti anche in molti altri prodotti, sia americani che europei: il «miele» spesso non era altro che sciroppo di mais addensato e colorato e l’estratto di «vaniglia» una miscela di alcol e colorante alimentare marrone; la marmellata di «fragole» poteva rivelarsi una pasta dolcificata di bucce di mela schiacciate, corretta con semi d’erba e tintura rossa, e il «caffè» magari era costituito in gran parte di segatura o semi di grano, fagioli, barbabietole, piselli e denti di leone, carbonizzati in modo da somigliare al prodotto originale.

NELLE BOCCETTE contenenti «pepe», «cannella» o «noce moscata» venivano spesso aggiunti materiali di riempimento assai più economici come gusci di cocco macinati, corda bruciata e a volte sporcizia recuperata dai pavimenti. La «farina» era regolarmente integrata con pietrisco polverizzato o gesso e allo zucchero di canna potevano essere mescolati insetti di terra (come acari o altri parassiti) senza che nessuno se ne accorgesse, benché il suo consumo fosse associato a una spiacevole malattia nota come «il prurito del droghiere».
Alla fine del XIX secolo l’onda travolgente della rivoluzione industriale e l’ascesa dell’industria chimica introdussero nel mercato alimentare tutta una serie di nuovi additivi e composti sintetici. Mentre alcuni Paesi europei, in particolare Germania, Francia e Inghilterra, avevano iniziato a imporre sul proprio territorio degli standard di sicurezza alimentare, negli Stati Uniti i produttori di cibi e bevande – non controllati da alcuna regolamentazione né da test di sicurezza basilari e senza alcun obbligo di etichettatura – abbracciarono con entusiasmo l’arrivo di quei nuovi «ingredienti» e li amalgamarono, talvolta in percentuali letali, con i prodotti destinati alla grande distribuzione.

IN UN’EPOCA priva di sistemi efficaci di refrigerazione, il conservante preferito per un prodotto particolarmente soggetto al deterioramento come il latte era la formaldeide, il cui uso era stato riadattato a partire dalle innovative pratiche di imbalsamazione dei becchini. Anche i trasformatori di carne utilizzavano soluzioni a base di formaldeide – vendute con nomi innocui come «Preservaline» –, nel loro caso per recuperare carne in fase di decomposizione. Altri conservanti popolari erano l’acido salicilico, un composto farmaceutico, e il borace, un composto del semimetallo boro, conosciuto dai più come ritrovato per le pulizie (sbiancante e sgrassante). Allo scopo di migliorare il colore degli articoli meno attraenti, i produttori alimentari adottarono anche nuove tinture sintetiche, derivate da sottoprodotti del carbone: tanto per i cibi quanto per le bevande, individuarono composti sintetici poco costosi che potevano sostituire di nascosto ai corrispondenti naturali, ad esempio la saccarina al posto dello zucchero, l’acido acetico invece del limone, alcolici creati in laboratorio, colorati e aromatizzati, per replicare l’aspetto e il gusto di whiskey invecchiati e vini pregiati.

NON C’È DA STUPIRSI se, quando i cittadini allarmati iniziarono a fare pressione sulle autorità federali per un aiuto nel contrasto a quelle frodi e adulterazioni, lo fecero sotto il vessillo della purezza. Si consideravano crociati del «cibo puro», in guerra non soltanto contro un mercato della distribuzione contaminato ma anche contro un sistema marcio fino alle radici e protetto da politici amici degli industriali. I capi del movimento per il cibo puro erano tutti d’accordo sul fatto che l’unica risposta realistica al problema fosse una supervisione regolamentata: avevano infatti constatato molte volte come i produttori e i trasformatori di cibo americani si sentissero ben poco, se non per nulla, responsabili della protezione della filiera alimentare, soprattutto quando ciò implicava ridurre i profitti. La formaldeide, ad esempio, era stata direttamente collegata a casi di morte, in particolare di bambini che avevano bevuto quello che sarebbe poi stato ribattezzato «il latte imbalsamato», ma i produttori non avevano mosso un dito per interrompere l’uso di quel conservante: il suo valore nel recuperare il latte avariato, altrimenti invendibile, era troppo prezioso per rinunciarvi. Le corporazioni americane avevano bloccato a più riprese e con successo i tentativi di far approvare anche solo la più blanda delle leggi sulla sicurezza alimentare, nonostante in Europa diversi paesi avessero già adottato provvedimenti significativi.

IL CHIMICO PROTAGONISTA della storia che racconto, Harvey Wiley, ha provato per anni a introdurre tali cambiamenti negli Stati Uniti, prima indagando e producendo dossier sugli orrori della filiera alimentare americana, poi alleandosi con gli attivisti per il cibo puro e, infine, conducendo il suo famoso esperimento soprannominato «la squadra veleni», nel quale fece ingerire additivi alimentari tossici ad un gruppo di volontari costituito da impiegati governativi giovani e in ottima salute, per dimostrare la pericolosità di quelle sostanze. La battaglia di Wiley, le misure sempre più estreme alle quali arrivò pur di ottenere delle leggi sulla sicurezza alimentare, e le mosse altrettanto determinate da parte delle grandi compagnie per osteggiarlo e sabotarne le idee, continuano ancora oggi a plasmare in modo decisivo la politica alimentare. Questa vicenda rappresenta quindi un momento affascinante e cruciale nella nostra storia, durante il quale furono prese decisioni che continuano a influire, nel bene e nel male, sulle politiche attuali. (Traduzione di Silvia Crupano)

 

SCHEDA

Deborah Blum è una giornalista scientifica statunitense e ha vinto il premio Pulitzer nel 1992 per un reportage sul conflitto tra ricercatori e movimenti animalisti. Scrive per la rivista «Wired» e per il «New York Times». Nel suo ultimo libro «The Poison Squad», la squadra dei veleni, racconta le vicende – anche tragiche – che hanno dato origine alle leggi sulla sicurezza alimentare. Domenica 19 sarà in Italia per partecipare alla giornata finale del festival «Food & Science» di Mantova, che apre venerdì 17. La manifestazione è dedicata al rapporto tra cibo e scienza e quest’anno il tema è «Semi». Occuperà diversi luoghi della città con incontri, spettacoli, laboratori, proiezioni e mostre che interesseranno sia i grandi che i bambini. Tra gli ospiti da segnalare, anche lo statunitense Jonathan Silvertown, dell’Università di Edimburgo, con un insolito invito «A cena con Darwin» (Bollati Boringhieri, 2018). Tra gli argomenti in discussione, la biologia molecolare applicata all’agricoltura, le fake news sul cibo, e l’integrazione tra tecnologie digitali e agricoltura, l’impatto dell’alimentazione sul clima. Tutte le informazioni a https://www.foodsciencefestival.it.