La parola del poeta greco Sotirios Pastekas può scuotere l’ordine esistente e non ha niente di dottrinale e di ideologico; il suo «impegno civile» – si potrebbe dire – sta nella capacità di uscire dalla separazione tra privato e pubblico, tra il corpo e la polis, tra biologia e storia, sta nel tentativo di sottrarre all’«afasia» pensieri, sentimenti, passioni «impresentabili» della vita e della quotidianità. È da lì, dalle aree di frontiera meno praticate dai saperi e dai linguaggi tradizionali, considerate ancora oggi «non politiche», che parte il viaggio di una poesia consapevole del legame imprescindibile tra corpo, individuo e legame sociale.

Se il «lirismo» ha significato in molti casi trasformare una «scia di immondizie» in «versi perfettamente puri», inseguire enigmi linguistici, Sotirios Pastakas può senz’altro essere definito un antilirico. La semplicità che riesce a produrre una comprensione immediata è solo quella che ha radici così profonde nell’esperienza da toccare il sentire più intimo di chi legge, modificare la percezione che ha di sé e del mondo.
In questa singolarità dell’opera di Sotirios Pastakas c’è il segno del salto di coscienza storica che è avvenuto con i movimenti degli anni Settanta: la critica al dualismo che ha contrapposto e differenziato il destino degli uomini e delle donne, relegando al medesimo tempo nella «natura» le esperienze umane più universali, come la nascita, la sessualità, l’amore, la sofferenza, la solitudine, l’invecchiamento, la morte.

È vero che la poesia, tra tutte le lingue sociali che conosciamo è quella che ha continuato a dare testimonianza di tutto ciò che passa nelle «viscere della storia», senza avere paura di nominare l’orrore. Ma l’esito è stato spesso solo la bellezza e la perfezione del verso.Sotirios è – come qualcuno lo ha definito – «un poeta dello sguardo»: uno sguardo che scava, spudorato e impietoso, nelle ferite del corpo, nominando i risvolti «indicibili» di un amore finito (L’esperienza del respiro), che si aggira negli interni delle case passando dai gesti più banali della quotidianità al dialogare tenero e pensoso col proprio gatto (Jorge). Ma è anche lo sguardo che riesce ad accostare la violenza del mondo alla distruttività con cui ci accaniamo talvolta sul nostro corpo, che può, attraverso pochi versi scarni, far incontrare in cucine disadorne, su tavole quasi vuote e cibi sempre più poveri, l’«empasse economica» che sta attraversando il suo paese e la spinta a creare nuove forme di «collettività» e di «altruismo» (Pasto dei poveri).

Nella splendida lirica, Sarajevo, il ponte che unisce le due sponde del fiume Miljacka e permette alla gente di «camminare su e giù, incontrarsi e scambiarsi abbracci», si può considerare l’immagine che più si addice all’idea e all’appassionante amore che Sotirios ha per la poesia.
Il «nomadismo» della poesia non è vagabondaggio, errare senza meta, ma la possibilità che ha essa stessa di farsi «ponte», lastricato di voci diverse e tra loro sconosciute, come quelle dei poeti che si sono incontrati nel 2006 a Sarajevo: voci che parlano di guerre ma anche d’amore e di amicizia, che hanno cantato canzoni popolari e raccontato barzellette, volti su cui si possono leggere sia il dolore che la tenerezza e l’ironia. La voce «che meriterà la poesia» deve essere provata in tutte le condizioni, avere gambe per farsi strada nel mondo, attraversare «i viali illuminati e i vicoli ciechi dei drogati», lasciarsi «lisciare» da lingue e culture diverse.

Ai poeti Sotirios chiede la combattività dei «pugili», anche quando al proprio interno conoscono fragilità e insicurezze, da loro si aspetta una volontà determinata a vincere l’afasia, rendere «indolore l’assurdo», strappare «parole sempreverdi» persino alle tombe. Se è così facile e immediato per qualsiasi lettore o ascoltatore ritrovarsi nella sue poesie, sentirle agire emotivamente, intellettualmente dentro di sé, forse è proprio per questo raro aprirsi all’ accoglimento dell’esperienza umana nella sua indicibile varietà e complessità, a partire da se stessi, da ciò che più ci accomuna al sentire degli altri.

Di una rara, generosa capacità di apertura verso gli altri e verso il mondo, parla anche l’idea che Sotirios ha della «traduzione»: non un «tradimento», come si pensa di solito, ma un «marsupio» dove la creazione poetica compie il suo sviluppo, il suo passaggio ad altri luoghi, altre culture, altre lingue.

Pensando alla crisi, non solo economica, che sta attraversando la Grecia, è difficile non interrogarsi su che cosa possa essere per il poeta l’«impegno civile». Fuori dalla «poesia schierata» e, al medesimo tempo, dall’Accademia, non c’è che l’autonomia di pensiero e di azione di un linguaggio, che il poeta è chiamato a difendere gelosamente e dal quale, non a caso, è venuto, nei giorni più bui, «un insolito fremito vitale», la spinta a scoprire nuove forme di solidarietà, la speranza di vedere «nascere dalle ceneri una società migliore».

Contro la «solitudine politica» dell’uomo contemporaneo, «prodotto e ricetta del capitalismo», Sotirios non si è limitato a schierare il poiein, ma una intensa, diffusa attività che va dall’organizzazione di Festival di poesia, riviste, trasmissioni radiofoniche, corsi di scrittura creativa, all’uso della comunicazione digitale – blog, facebook, ecc. – divenuta indispensabile dopo la crisi delle pubblicazioni su carta. La sua poesia non potrebbe essere così coinvolgente, se non conoscesse anche l’amore per la «sospensione del tempo» – quello della sua Larissa, la Grecia di provincia, che permette di «registrare le inclinazioni della luce», l’ondeggiare del mare e la direzione del vento – e se non dovesse ogni volta strappare alle «ombre» e al «gelo» una parola creativa di cui tutto si può dire, tranne che abbia «ceduto alla disperazione»