Certo, dentro questo autunno napoletano, mentre ancora fermentano le fibre dei film di Di Costanzo e Martone, è arrivato Sorrentino con il suo È stata la mano di Dio e la scena in cui lui da giovane si reca su un set cinematografico – è sempre stupefacente, qualcosa come un mesmerismo, quando in un film irrompe altro cinema: perché l’immagine non può che parlare, mostrare di sé, cioè del palinsesto linguistico, a trazione luminosa, ialina attraverso cui si celebra la vita, cioè tutto l’agglomerato di simboli che la significa, la edifica – a sottolineare implicitamente l’importanza di Antonio Capuano nella cultura di questo paese, a investirlo tra l’altro della responsabilità di iniziazione alla regia per il ragazzo che era, Fabietto, trepido, infatuato del visibilio connaturato alla visione; di avergli inculcato il concetto di conflitto, di concitazione che è l’essenza di ogni vera, pura immagine, per cui, secondo la dizione di Breton, «la bellezza sarà convulsa o non sarà». Ma a ben guardare è già da tempo che il cinema di Capuano trama nel tessuto cinematografico contemporaneo, sabotando le trame, sobillando non tanto gli elementi della narrazione quanto la forma stessa della messa in scena, sempre in balia di albori, in preda alle spinte ferine, rudi delle forze cinematografiche che a tratti sfondano le sagome, i contorni delle cose, vagando nel quadro sotto forma di aria formicolante, smania di trasparire, di esistere, sotto forma di concitazione appunto.

Che è il movente anche del Buco in testa, film straordinario, di una densità formale, di un’irrequietezza proprio dei sintagmi che riportano a Rossellini, al Pasolini più arioso, fremente (l’Edipo re, Teorema, La sequenza del fiore di carta), e indicano la strada tutta capuaniana, sempre imprevista, mai vista, a un cinema a venire che non può che essere il frutto di un contrasto costantemente in divenire tra gli impulsi e il loro cagliarsi nei corpi, nelle sagome; tra le forze, il desiderio di esistere, e le forme assestate, fissate, in qualche modo morenti: perché l’immagine data una volta per tutte quella di Wen Anderson ad esempio, di The French Dispatch per restare a un film nelle sale in questo periodo: così lavorata, rifinita, stereotipata non è che fermezza inane, sorda stasi, cianosi di cadavere. L’immagine conchiusa, il cosiddetto visto è carcame, immagine cieca, mentre ogni singola immagine di Capuano si dispone a vedere essa stessa, è veggente: anela alla vita così inattesa, così irriducibile a ogni stabile, immutabile soluzione formale, tant’è che spesso chiama in causa il teatro, la scena nella scena, moltiplicando i punti di vista, le angolazioni provvisorie; guarda alla vita di ogni singolo segno innanzitutto: è immagine in fuga, in fuga dalla morte. E cos’è alla fine il treno dei Lumière rievocato all’inizio del Buco in testa, e la continua frammentazione della narrazione, l’andirivieni assiduo tra due città, tra due nuclei narrativi, e i viraggi di colore accesso, molto acceso, molto rosso, di alcune scene, se non il tentativo di sfuggire all’immobilità dell’immagine, di esorcizzare il sonno eterno dei segni?

USCITO in sala la scorsa primavera, passato al festival di Torino un anno fa Il buco in testa e Antonio Capuano saranno al Cineporto di Bari stasera per la rassegna Registi fuori dagli scheRmi, occasione, tra l’altro, per tornare sulla connotazione teorica e politica del suo cinema (tra recrudescenza camorrista, ex-brigatisti, fascisti e certi chiaroscuri di sinistra) e soffermarsi soprattutto su uno dei personaggi femminili più stratificati, sanguigni, struggenti degli ultimi anni: Maria Serra (una magnifica Teresa Saponangelo) intenta a districarsi nello scenario vischioso che si dipana tra Napoli e Milano, dentro un’apnea urbana in cui cielo e mare sembrano ordire i termini plumbei del dramma, eppure lasciano trasparire dei bagliori di quando in quando, un chiarore caldo attraverso cirrostrati imponenti, bassi, cupi sulle teste degli esseri, e onde schiumanti di rabbia, di inquietudine. Sono gli slanci di Maria, aperture improvvise, assolate nell’orizzonte ruvido, disilluso che è la sua esistenza, il suo apparire, imprimersi ogni volta, randagia com’è, sulla scorza della terra e dell’inquadratura; come quelle di Titty, l’amica che vive l’amore con gioiosa incoscienza ed è capace di accompagnare Maria per spiagge autunnali, ponti in vetro protrusi sul mare e per le strade della città, le piazze chiassose semplicemente godendosi un gelato e qualche facezia, qualche manfrina bambinesca: l’attimo stesso in cui la vita, impensata e inveterata, s’invera, improvvisamente s’inventa, si rivela ponendosi su un raggio di luce in modo che vi si possa aderire.

ECCO c’è nel cinema di Capuano questa adesione incondizionata all’avvenimento del mondo, a ciò che è immanente e vibra, respira nell’inquadratura, che ne sia benedizione o al contrario maledizione, bestemmia. É la coesistenza, la dialettica dei contrari in quanto sprone dell’immagine di Capuano: la solitudine, lo strazio dello stare al mondo, il risentimento verso un’esperienza intesa come attrito continuo, caos, come intrico di dolore, che non solo non escludono ma invocano, creano proprio dalla propria carne ferita la volontà più piena, la gioia di esistere, e i momenti di grazia, di suggestione, ad aderire alle cose e alle persone, perché alla fine, abbandonati al riflesso del vetro «è bello così… a fare pace: è bello».