La prima puntata si interroga sui segreti del «denso unto arancione» del ragù, e sulle differenze fra il ragù bolognese e quello di Matera – soprannominato dell’Arca di Noè perché comprende praticamente «qualunque essere vivente». Nella Repubblica del soffritto – podcast di 22 puntate disponibile su Audible – Daniele De Michele, in arte Donpasta, continua la sua ricerca sulla cucina popolare italiana cominciata con Artusi remix e proseguita con il documentario presentato due anni fa alle Giornate degli Autori di Venezia, I villani. Una ricerca che lo ha portato a incontrare le nonne, e i loro segreti culinari, di tutte le regioni d’Italia, e che attraverso la cucina restituisce la storia del nostro Paese, i suoi conflitti, e una cultura popolare ormai oscurata dalla globalizzazione. Nelle puntate di 45 minuti in cui parla con cuoche e contadine mentre gli preparano le loro specialità – fra cui Caterina, che gestisce un pastificio da 40 anni e vorrebbe non chiuderlo mai, ma le figlie non vogliono seguire le sue orme – Donpasta costruisce una narrazione divertente e allo stesso tempo malinconica, che inquadra la frattura, anche politica, fra l’Italia di oggi e una che sta lentamente scomparendo.

Come nasce questa nuova tappa della ricerca?
Quando cominciai a chiedere ricette da tutto il Paese per Artusi remix, me ne arrivarono a centinaia, insieme a storie meravigliose. Così ho iniziato a girare l’Italia per farmele preparare, e raccontare, e molte sono diventate delle «pillole» video. Ma nessuna tv era interessata a un lavoro così antropologico, dialettale – una volta mi hanno detto anche che era troppo apocalittico. L’osservazione antropologica della cultura del cibo italiana d’altronde è in conflitto con tutte le mode che si sono sviluppate negli ultimi dieci anni: cibi fighetti, chef e così via. I villani nasce proprio per raccontare questo viaggio, di cui naturalmente opera una sintesi. Mi è rimasto però comunque un archivio gigante, inutilizzato. E così quando mi hanno chiamato da Audible ho pensato a questo progetto che nella durata, e nei ritmi, è quasi come una sorta di radio anni ’50. E mi ha dato la possibilità di condividere queste interviste ma anche il modo in cui le faccio: nei Villani non comparivo mai perché mi sembrava quasi fuori luogo, nel podcast invece entro nel racconto con le mie domande e i miei racconti.

«La repubblica del soffritto» arriva subito dopo il lockdown, quando tante persone hanno «riscoperto» la passione per la cucina.
La gente pensava che per fare il pane o la pasta ci volesse un tempo biblico, quando il lavoro in realtà lo fa il forno, o l’acqua che bolle, il lievito. C’è stata una sorta di mistificazione del concetto di tempo, che è andata proprio a incidere sul cibo. Il confinamento invece ha permesso di intravedere quello che c’è sempre stato in Italia: una cucina veloce, semplice, economica. È una delle poche cucine così elementari e sane. L’italiano in questi mesi ha in un certo senso smontato psicologicamente gli ultimi 30 anni di modernizzazione. E per la mia ricerca io sono stato proprio nelle enclavi in cui si proteggeva questa tradizione, di cui ora forse si può capire un po’ meglio il senso.

Nei paesi anglosassoni dai supermercati spariva la carta igienica, in Italia a venire saccheggiati erano la farina e il lievito.
Nel podcast c’è una sezione dedicata al mondo contadino, e una delle questioni sollevate è proprio come si organizza la distribuzione. Durante il confinamento ci siamo ritrovati a fare la fila per andare a fare la spesa al supermercato, una cosa folle. Ma con una serie di reti, fra Gas (gruppi d’acquisto solidali) e centri sociali, si è in parte organizzata una filiera di distribuzione alternativa. È stato un momento in cui si è capito che oltre alla farina si possono avere i prodotti forniti dai veri contadini subito fuori dalle città, anche quelle grandi come Roma. Quindi questo periodo da un lato ci offre la possibilità di apprezzare, verificare e capire meglio quali sono le poste in gioco, e il concetto di filiera corta. Ma nonostante ci fossero le file ai supermercati nessuno ha pensato di organizzare in modo strutturato una distribuzione alternativa, che sarebbe anche una filiera occupazionale, che crea posti di lavoro, nuovi mercati.

Attraverso il podcast viene anche raccontata la storia d’Italia.
Una cosa che mi ha molto colpito è che soprattutto le donne non si curano molto di spiegare la cucina. Mentre gli uomini si dilungano sugli ingredienti e le preparazioni, le donne vanno dritte al punto e poi sistematicamente cominciano a raccontare la loro storia. E questo, dato che ho attraversato quasi tutte le regioni del Paese, mi ha permesso di ascoltare la storia d’Italia in tutti i dialetti – che era quello che mi interessava dato che mi occupo di cultura del popolo in chiave gramsciana. Molte delle donne che intervisto sono nate prima della seconda guerra mondiale: hanno vissuto il conflitto, alcune hanno preso parte alla resistenza, altre hanno parlato del dopoguerra, del rapporto fra industria e campagna. Una di loro – democristiana – negli anni ’70 aveva tre figli in carcere per terrorismo. Attraverso i loro racconti è possibile vedere attraverso lo sguardo della gente comune cosa è successo in Italia.

In una puntata viene anche eletto il presidente della repubblica del soffritto.
È Salvatore Pigiama – non ho mai capito se fosse il suo vero nome – che mi ha preparato il gonioru, la zuppa di pesce algherese con il fegato della seppia, il concentrato di pomodoro e i pomodori secchi fatti in casa che prende il nome dalla cesta dove i pescatori condividono il pesce un po’ rovinato. È diventato il presidente della repubblica del soffritto perché crea una serie di iperboli geniali contro il pesce congelato, la plastica nei supermercati, i fritti nei ristoranti del centro storico… Che lui individua come sintomi di una società che non funziona. La Sardegna è una regione molto interessante perché, anche se con molte contraddizioni, è quella che ha un po’ più mantenuto dei forti ostracismi verso la modernità, e ha conservato la tradizione del cibo come rituale – ogni preparazione ha ancora in sé l’elemento rituale, con cui è possibile entrare nella dimensione magica del cibo come dono.

Spesso la sensazione è che si parli di un mondo destinato alla scomparsa.
È un problema che viene sollevato spesso. L’ultima puntata è dedicata a una donna che racconta come il figlio si sia rifiutato di fare il contadino come lei: ha scelto di fare il camionista. Ma in tutte le persone che ho intervistato è forte la necessità dell’autodeterminazione delle scelte – anche solo se devono fare il formaggio in un modo che oggi è illegale – quindi la sensazione è che comunque trasmettano ai loro figli quello stesso grado di libertà di pensiero. Un passaggio di consegne che non è automatico, ma ci sono delle vie attraverso cui si può attivare.Ma è evidente che non si tratterà più di quell’Italia raccontata dalle nonne del podcast, purtroppo o per fortuna. L’intento non è esprimere un giudizio, quanto raccontare che questo mondo esiste, è fatto di persone senzienti ed è un patrimonio – per fortuna ancora vivo, specialmente nelle zone rurali. È uno dei grandi errori della sinistra aver abbandonato queste persone.