Lui è Ismail, un giovane del Gambia arrivato in Italia da qualche anno. Lei è Elvira Mujcic, una profuga fuggita vent’anni fa dalla guerra in Bosnia-Erzegovina. Agli occhi di lui lei è «un’immigrata di successo». Le sue fortune letterarie qui non c’entrano niente. Elvira è riuscita a strappare un documento che le ha permesso di restare in Italia e costruirsi una vita altrove. Lui immigrato di successo lo è un po’ meno. La Commissione ha rigettato la sua domanda d’asilo. Ed ora ha trenta giorni di tempo per ricorrere e per diventare grazie ai consigli di Elvira un «bravo immigrato».

NE VIENE FUORI un racconto costruito su un abile gioco di paradossi, a metà tra realtà e finzione. Lo spazio in cui si dipanano le vicende dei due protagonisti non può che essere un confine, quello tra due vite che si toccano, si sfuggono, si scontrano alla ricerca di un luogo condiviso in cui far convivere quella «combinatoria d’esperienze, d’informazioni, di letture, d’immaginazioni» che per Italo Calvino definisce le nostre esistenze.
La sua citazione all’inizio del libro, Consigli per essere un bravo immigrato (Elliot, pp. 96, euro 12,50), rivela almeno in parte quel che è l’essenza ultima del lavoro di Mujcic. «Restituire una soggettività a una categoria sociale oggettivizzata da chi la racconta: giornalisti, scrittori, politici, “esperti di migrazioni che parlano ai migranti”, burocrati stipendiati per decidere della veridicità di un’esistenza» spiega l’autrice. La regola numero uno per essere bravi migranti è raccontare ciò che questi rappresentano ai nostri occhi: un derelitto senza identità, senza storia, senza cultura, spogliato dei suoi punti di forza, delle sue aspirazioni, della rabbia per la condizione in cui vive.

Già, perché per essere un immigrato di successo devi essere grato del cibo che ti viene offerto, anche se è immangiabile, grato di vivere in una gabbia avulsa dalla realtà, comunemente denominata centro di accoglienza, grato di lavorare gratis in un Paese «che ti ha accolto». Dopotutto, non scappi dalla povertà o dalla guerra? Cosa vuoi? Essere preso in considerazione come essere umano, far parte di una comunità, magari godere dei nostri stessi diritti?
Niente da fare, il derelitto non ha esigenze, ha solo una funzione: farci credere che siamo dalla parte giusta, quella opposta ai cattivi che vorrebbero rispedirli indietro, aiutarli a casa loro, lasciarli affogare in mare. «I derelitti sono numeri che servono a dimostrare che qui non c’è nessuna invasione. I derelitti sono degli esseri vuoti come gusci di noce, esistenze ridotte a brandelli che ci illudono che le nostre vite al contrario siano piene, ricche, buone».

DIETRO IL PRETESTO di dare consigli per essere un bravo immigrato, Mujcic ci sbatte in faccia una verità sacrosanta: il nostro ideale di finta accoglienza non è poi tanto diverso da quello di reale chiusura. Entrambi si nutrono di una falsa e strumentale conoscenza dell’Altro, un pregiudizio che vuole i migranti come una massa informe da salvare o da denigrare. I migranti restano sullo sfondo di una scena in cui l’attrice protagonista è l’Europa e la sua civiltà talmente superiore da non sentire il bisogno di porre all’Altro la più semplice delle domande: chi sei?
Se fosse tutto qui, il racconto di Mujcic non sarebbe che una sagace provocazione. Ma la scrittrice bosniaca va oltre. Alle nostre false verità oppone le vere menzogne dei migranti. Quella raccontata da Elvira quando arrivata in Italia, dichiara di essere nata a Loznica, Bosnia-Erzegovina. Troppo complicato spiegare che in realtà si trova in Serbia, che sua madre era lì per caso, in viaggio, quando ancora si viveva in un unico Paese, la Jugoslavia. Mente anche Ismail. Lo fa davanti alla Commissione che esamina la sua domanda, e lo fa con Elvira, almeno all’inizio. Mente per proteggere le sue ferite Ismail, mente pur sapendo che il suo passato devastato può fargli ottenere quel diritto a restare in Italia.

EPPURE NON È LA STORIA inventata che lo frega. A fregarlo è il suo atteggiamento, troppo propositivo per uno con un fardello così pesante. Ed ecco che le menzogne dell’una e dell’altro sono delle vie di fuga che facilitano la vita o semplicemente la mettono al riparo. Di più, sono un modo, un’arte quasi, per spezzare lo stereotipo del derelitto o del parassita e riaffermare così la pienezza della propria esistenza. A un tratto è Elvira che mettendo a nudo la propria incapacità di parlare del suo passato, fa il primo passo verso Ismail. I ruoli si capovolgono.
È lei, bianca, immigrata di successo, ad aver bisogno di lui, nero, richiedente asilo in bilico. Una metafora che solleva una questione importante: sono davvero i migranti ad aver bisogno di noi o il contrario? Mujcic non ha dubbi. «Ci stiamo perdendo il bello dell’immigrazione. Una rivoluzione fatta coi corpi per abbattere la frontiera tra ricchi e poveri, quella che stabilisce chi è libero di muoversi e chi no. E’ questa la sfida che le nostre società decadenti dovrebbero accettare, questa la sfida che fingiamo di non vedere».