Nel 1991 fra le mura dei Castelli di Bellinzona fu innalzata una grande tenda per festeggiare il 700/o anniversario dell’istituzione della Confederazione Svizzera. Mario Botta fissa da quel «fortuito antefatto» la nascita dell’Accademia di Architettura di Mendrisio, «costola» dell’Università della Svizzera Italiana (Usi).

IL «MARCHINGEGNO» MOBILE che dalla valle di Castelgrande finì il suo tour a Bruxelles dopo diverse soste nei cantoni elvetici, rappresentava, infatti, quell’opera «moderna» che Szeemann riconobbe intrisa di una «vena di ingenuità e di fiducia». Ora l’Accademia compie venticinque anni e si è pensato bene di celebrarla con una mostra, Architettura che fa Scuola (fino al 16 gennaio 2022) e un libro, Tracce di una scuola, Accademia di Architettura a Mendrisio 1996-2021 (Mendrisio Academy Press / Electa, pp. 424, euro 35). Nel volume Botta, progettista della Tenda e fondatore della scuola, illustra i passaggi chiave che hanno prodotto una realtà universitaria sicura che oggi si confronta alla pari con i Politecnici federali di Zurigo e Losanna.

I tentativi di costituire un istituto di architettura in Ticino risalgono al XIX secolo e rimasero infruttuosi fino alla metà del secolo successivo. Furono politici come Stefano Franscini, legato a Carlo Cattaneo, e filosofi come Romeo Manzoni, che si adoperarono perché un’università sorgesse in territorio ticinese così da favorire il «proficuo scambio tra cultura del Nord germanofono e del Sud mediterraneo».

Se ne discusse ancora tra gli anni Venti e Trenta con l’ingegnere e filosofo Arnoldo Bettelini e dopo la bocciatura referendaria nel 1986 di un ultimo pur «ambiguo» esperimento (il Centro Universitario della Svizzera Italiana, Cusi), si giunse nel 1990 alla fondazione dell’ateneo universitario in Ticino per l’intraprendenza dei politici Flavio Cotti e Giuseppe Buffi, rispettivamente l’uno alla guida del Dipartimento federale dell’Interno e l’altro dell’Istruzione. Fu allora che Roland Crottaz, presidente dei Politecnici federali, si rivolse a Botta perché «riflettesse» su come sgravare i due politecnici dal peso del numero degli iscritti e «potenziare» le discipline del progetto da affiancare a quelle tecnologiche già presenti.

Quando questi eventi accadono, l’architettura ticinese riveste un’alta considerazione internazionale. Architetti del prestigio di Tita Carloni, Aurelio Galfetti, Luigi Snozzi, Livio Vacchini, segnano una stagione fortunata di interventi sorretti dalla «convinzione etica» che «progresso sociale, modernità e sperimentazione si danno la mano per camminare».

IL «PROGETTO PRELIMINARE» che Botta immagina e che poi sarà attuato nel 1996, assorbe molti di questi influssi individuali presenti nel territorio ticinese e condivisi da lui stesso, altri gli verranno dai suoi rapporti con l’Italia, già risalenti al periodo dei suoi studi all’Istituto universitario di architettura di Venezia (Le Corbusier, Kahn, Scarpa), altri ancora dalle sue relazioni internazionali. L’intento era formare un «architetto generalista», in altre parole un «individuo critico e propositivo».

Quanto di quella «forza culturale trainante» degli anni iniziali (un decennio?) si conservi ai giorni nostri, invece del suo esaurimento nella trasformazione dell’università ticinese in un centro di «turismo universitario» come paventava Carloni, meriterebbe un ragionamento più profondo e riguardante in generale il futuro del mestiere dell’architetto ridotto a esecutore passivo e mondializzato dei piani degli investitori finanziari.

DOPO AVERE SCORSO la ricca mole dei materiali che narrano eventi, installazioni (memorabile il modello ligneo del borrominiano San Carlino sezionato sul Lago di Lugano), ma soprattutto lezioni, incontri e workshop di famosi studiosi e architetti transitati dall’Accademia, è comunque doveroso riflettere sulle effettive ricadute nella città del loro insegnamento. Perché è indubbio che per molti sia stata una «stagione d’oro» (Frampton) e così per gli allievi oggi raccolti in associazione (Ama), come lo fu l’Iuav di Giuseppe Samonà frequentato da Botta e prima ancora il Bauhaus di Gropius: tutte «grandi scuole», come l’Accademia di Mendrisio.

Tuttavia è ancora giusto ciò che scrisse Bruno Zevi: basta attendere che cambi «l’instabile equilibrio tra le varie tendenze» o finiscano le personalità illustri, che della scuola rimarrà solo il «ricordo di un’atmosfera mitica». Lo storico romano sosteneva che un «indirizzo pedagogico», ancor più se rivolto a una «prospettiva umanistica della civiltà tecnica», entra in crisi se non retto da un moderno «metodo storico-critico». Ogni discussione proiettata nel futuro intorno a una pedagogia per l’architettura non può che ripartire da questa pur datata osservazione.