Nel solco della sua passione per la storia della conoscenza, lo storico britannico Peter Burke ha dedicato il suo ultimo lavoro a una poderosa biografia dei contributi che le comunità in fuga dalle persecuzioni politiche e religiose hanno saputo dare al mondo grazie al loro sguardo e al loro vissuto.
Espatriati ed esuli nella storia della conoscenza (Il Mulino, pp. 294, euro 28) si muove su più secoli e su più continenti, restituendoci la toccante esperienza collettiva che nasce lasciando il proprio paese per approdare in nuove lingue, in nuovi spazi e in nuovi pensieri. «Il lessico dell’esilio» rispecchia l’eterogeneità delle forme e dei contesti in cui esso matura. Se Ariosto scrive profugo per indicare qualcuno che è fuggito, Machiavelli si serve del più sofisticato fuoriuscito a spiegare il movimento di qualcuno che esce «da» per andare «a».

QUASI TATTILE il termine spagnolo destierro, sradicamento, distrazione dalla propria terra, tramutato poi nel neologismo transtierro, usato dal filosofo José Gaos per indicare, nel sentirsi trapiantato in Messico, l’approdo finale del suo girovagare.
Eppure per il titolo del suo lavoro Burke sceglie di usare «esilio», dalla portata generale, ed «espatriato» dando rilevanza alla radice comune dei due termini, che si trova nel suffisso ex, per ricostruire l’esperienza comune delle migrazioni, sia che siano nate da una cacciata, sia che siano state l’esito di una scelta.
Non sono problemi di natura linguistica. In queste parole si snoda la narrazione dolorosa e grandiosa degli emigrati di ogni tempo, da Galeno di Pergamo arrivato a Roma nel 162 per servire tre imperatori come medico di corte agli esuli tedeschi degli anni trenta, passando per «lunga ombra» dei pogrom per motivi religiosi e delle conversioni forzate.

GLI EVENTI scatenanti non sono quasi mai puntualmente situati nella storia, sono ondate di ricorsività, come racconta la vicenda dei profughi ebrei, cominciata attorno al 1492, dopo la conquista di Granada da parte dei cristiani, e dispiegatasi fino al secondo conflitto mondiale.
È una storia che tiene assieme Baruch Spinoza e Hannah Arendt, per citare due epigoni di ragionamento impregnato d’esperienza.
Ciò che Burke ha il merito di sottolineare con straordinaria forza è questo processo continuo di contaminazione (gli antropologi lo chiamano «transculturazione») in cui l’essere «out of place», per dirla alla Edward Said, di un singolo individuo è il motore di un intreccio tra saperi, tra sguardi, tra intelligenze, capace di diventare potenza collettiva. Sono tre le tensioni del pensiero nate dai processi migratori, «mediazione, distacco e ibridazione», che confluiscono in una «sprovincializzazione della conoscenza»: un orizzonte aperto, in cui nessuno è mai il centro di tutto. Burke si serve delle parole di tanti per raccontare il movimento di queste faglie del pensiero umano.

DE TOCQUEVILLE paragonò il teorico a un viaggiatore, che è salito su un monte. Braudel, che con il suo «sguardo olimpico» ci dice che nello spostarsi realizzò «il desiderio e il bisogno di vedere grande».
Il metodo di George Simmel. «l’obiettività dello straniero», fu quasi confezionato sulla sua esperienza di esule e le strade del possibile che calcò Hirshmann gli furono aperte proprio dalla mescolanza di intelligenze nata per resistere al nazismo. Perché, ci avverte nel testo, forme di pensiero troppo coinvolte, e modi tradizionali di pensare rischiano di diventare pantani per la storia delle idee.
E, se si pensa alla brutalità dei respingimenti nel Mediterraneo, anche precipizi in cui si schianta l’intera umanità.