Un anno fa se ne andava Obayashi Nobuhiko, regista giapponese fra i più originali che l’arcipelago abbia mai prodotto. Dagli inizi nel cinema d’avanguardia e sperimentale degli anni ’60 ai suoi lavori pubblicitari per la televisione, dal film culto House ai lungometraggi adolescenziali degli anni ’80, fino ai suoi film pacifisti degli ultimi dieci anni, Obayashi è sempre stato fedele all’idea di un cinema come macchina dei sogni.

L’ANNIVERSARIO della sua scomparsa è una perfetta occasione per (ri)scoprire Labyrinth of Cinema,uscito pochi mesi prima della sua morte. Lisergico e fantasmagorico in Italia è disponibile su FAREASTREAM, la piattaforma online dedicata al cinema estremo orientale nata lo scorso autunno come spin-off del Far East Film Festival di Udine. Il film è la summa del cinema del regista sperimentale, pop, serio nei temi, ma giocoso e volutamente artificioso nella realizzazione. La storia è incentrata su un gruppo di giovani che viaggiano indietro nel tempo, tema già affrontato altre volte da Obayashi con successo, quando si trovano in un cinema a Onomichi, la sua città natale, poco prima dell’orario di chiusura. Attraverso la magia del cinema, assistono a morti e battaglie durante gli ultimi giorni del periodo feudale giapponese, alle brutalità perpetrate in Cina dall’impero giapponese ed infine alla catastrofe finale, le due bombe su Hiroshima e Nagasaki.

Labyrinth of Cinema è un meta-film fantasy che esonda tutti i generi, una lettera d’amore al cinema classico giapponese, ma anche un’originale elaborazione del lutto per le morti avvenute nelle guerre della prima metà del secolo scorso e una feroce critica alla mentalità nazionalista e imperialista ed ai conseguenti crimini di guerra commessi dall’esercito giapponese. I vari piani di realtà che compongono il lungometraggio, il presente della storia, il passato, il film nel film, con la narrazione che salta avanti e indietro nel tempo e gli stessi attori e attrici che interpretano personaggi diversi.
Le tre ore del film sono un tuffo nella storia nazionale e cinematografica dell’arcipelago giapponese, ma si muovono ad una velocità vertiginosa e con dialoghi sparati a raffica e informazioni che si riversano a massa sullo spettatore. In questo senso è un’esperienza che travolge, ma se si è ben disposti ad abbracciare questa totalità in tutta la sua potenza, superato lo spaesamento iniziale, se ne rimane affascinati. Gli effetti speciali, come spesso accade nella filmografia di Obayashi, sono volutamente artigianali e non nascondono il loro essere artificio, lo stile ricorda i primi vagiti della settima arte e specialmente le opere di Georges Méliès o ancora le fantasmagorie create da Keren Zeman negli anni ’50 e ’60 del secolo scorso.

QUANDO Obayashi cominciò a lavorare al film, già sapeva che il suo tempo era limitato dalla malattia, perciò mise dentro a questo epitaffio cinematografico tutto ciò che voleva comunicare alle generazioni successive: pacifismo e amore per il cinema. Questo però senza essere didattico, anzi sapendo divertire, una miscela fra alto e basso che rimane uno dei suoi lasciti più importanti.