Degli archivisti maneggiano la pellicola che custodisce le immagini dell’invasione italiana della Libia nel 1911 – in primissimo piano le loro mani trasmettono la cura per il proprio lavoro, l’attenzione al dettaglio, ai minuscoli frammenti che custodiscono la nostra memoria. Una cura osservata da vicino da Massimo D’Anolfi e Martina Parenti nel loro Guerra e pace, il nuovo film della coppia di registi presentato oggi in apertura di Filmmaker Festival sulla piattaforma di MyMovies dopo il debutto in Orizzonti alla Mostra di Venezia.

L’attenzione al dettaglio ritorna spesso nel loro cinema: dalle immagini dello studioso giapponese che in Spira mirabilis cercava di carpire il segreto della medusa «immortale» al lavoro dei restauratori dell’Infinita fabbrica del Duomo, fino a Materia oscura e alla dolcezza silenziosa dei gesti dei pastori nei confronti di un vitello malato a causa delle sperimentazioni militari nel poligono di Quirra, in Sardegna. Nei loro film, spiega infatti Parenti, «c’è sempre l’idea della cura nel lavoro: la teoria non nasce da un pensiero filosofico ma nella pratica quotidiana, nella realizzazione anche di cose piccole».

Diviso in quattro capitoli – passato remoto, passato prossimo, presente e futuro – Guerra e pace oppone a questa cura la crudeltà delle immagini della guerra: gli Studios cinematografici italiani che danno forma alla narrazione propagandistica della guerra in Libia, l’educazione all’immagine e la pratica cinematografica come strumenti di preparazione ai conflitti dentro l’Ecole des metiers de l’image dell’aviazione francese, il lavoro nell’unità di crisi della Farnesina in cui si monitorano senza sosta le zone di guerra. Il film è anche un percorso negli archivi – dall’Ecpad francese a quello del Luce – proprio i luoghi che mettono in contatto il passato remoto con il tempo a venire: il «futuro dove tutto è già scritto» .

Da cosa è nato il progetto di «Guerra e pace»?
Massimo D’Anolfi: Da un’intuizione che abbiamo avuto a Berna, mentre lavoravamo a Spira Mirabilis. Stavamo facendo una passeggiata e a un certo punto abbiamo notato le bandiere: l’Iraq, l’America, la Cina, l’Afghanistan, era il quartiere delle ambasciate, in una sola via c’era il mondo intero. Da lì abbiamo cominciato a riflettere su cos’è la diplomazia oggi. Attraverso due letture fondamentali: La violenza e le regole dell’ambasciatore Roberto Toscano – un diplomatico presente in Cile durante la dittatura di Pinochet; e poi quello che è forse il primo testo teorico sul cinema, di Bolesław Matuszewski. Abbiamo messo insieme la diplomazia, il cinema e la guerra e siamo arrivati a sviluppare quello che poi è diventato Guerra e pace. Ma, come capita sempre, i nostri film nascono durante il viaggio, da un processo di riflessioni, studio, accumulo.

Ciò che emerge è che il cinema e le sue immagini sono intrinsecamente legate alla guerra, come se tra loro ci fosse un rapporto genetico.
Martina Parenti: Il film è la dichiarazione del fallimento del cinema, per il quale è stato molto più comodo farsi cinema di guerra. Lo dicono fin dall’inizio i due studiosi: è più remunerativo. Nel corso di 100 anni si è spostato in direzione della guerra molto più di quanto lo abbia fatto in quella opposta. Per quanto il cinema possa essere molte altre cose: fonte di diplomazia, di pace…

Fra il passato remoto degli Studios che raccontano l’invasione della Libia e il presente le immagini sono cambiate: c’è stata una loro moltiplicazione esponenziale. Eppure questo non sembra avere aggiunto nitidezza alla narrazione della guerra.
MD: La moltiplicazione dei punti di vista in alcuni momenti diventa una voce in presa diretta dei testimoni di un evento, e quindi in qualche modo si può trasformare in un grido di allarme al mondo, come era successo per esempio con la Guerra civile spagnola quando per la prima volta vennero filmati i morti civili. La moltiplicazione dei punti di vista è però anche pericolosa, perché è facilmente manipolabile: per lo stesso motivo per cui in alcuni casi è preziosa può diventare, nelle mani del potere, uno strumento per rendere tutto possibile – e quando tutto è possibile nulla ha valore: tante immagini generano solo confusione. Ormai siamo assuefatti ai crimini più cruenti, e da questo punto di vista fa orrore sia la guerra che la pace, l’esperienza dei confitti riflessa sugli schermi. Nel nostro film la guerra è ovunque, presente anche dentro le «impalcature» di pace: nel Ministero, negli archivi della Cineteca italiana e dell’Istituto Luce, a Parigi mentre i militari si formano per filmare le guerre del presente e del futuro. Noi tentiamo di fare una riflessione sul senso di queste immagini: hanno ancora un valore? È questa la domanda che ci ha accompagnati per tutto il film. Perché continuiamo a raccogliere testimonianze e immagini di guerra?

Come avete lavorato con il patrimonio di immagini dei tanti archivi presenti nel film?
MP: È da anni che i nostri film entrano negli archivi, cerchiamo sempre di fare in modo che le loro immagini non siano un «abbellimento» di quelle che filmiamo noi, ma ne siano la materia stessa. È da Materia oscura che lavoriamo in questo senso: lì era l’uso che i militari facevano del proprio patrimonio di immagini. In Guerra e pace l’archivio diventa il motivo stesso del lavoro dei restauratori, la materia dell’informazione e della comunicazione, il modello per imparare – quindi fonte di insegnamento -, e poi nell’ultima parte c’è un aspetto più sentimentale, di testimonianza. Nel nostro lavoro teniamo sempre conto del fatto che l’archivio è qualcosa di molto concreto e vivo. Tutto il film è come una giustificazione all’esistenza stessa degli archivi: come dice il testimone alla fine del film le immagini esistono già, se soltanto le usassimo saremmo a un buon punto nella comprensione. Guerra e pace è come un’impalcatura che contiene ciò che ci è stato dato e deve essere riscoperto.

MD: Abbiamo tentato di interrogare gli archivi «a casa loro». Siamo entrati nelle istituzioni: il Luce, la Cineteca italiana, quella svizzera che custodisce il prezioso archivio della Croce Rossa internazionale – siamo andati a risvegliare questo materiale. Matuszewski è stato il primo a parlare – già nel 1898 – della necessità di creare degli archivi cinematografici. Il suo discorso era molto all’avanguardia, anche se aveva degli aspetti naif: ipotizzava che attraverso il cinema e gli archivi si potesse fare a meno dei libri di storia scritti, perché la storia sarebbe diventata certa, sicura, grazie all’immagine in movimento che all’epoca, a differenza della fotografia, non era manipolabile. Parlava di una «storia del futuro» in cui gli archivi sarebbero stati come sono ancora oggi le biblioteche: il materiale andava custodito, studiato e catalogato – una descrizione che si avvererà circa 15 anni dopo con la nascita del primo archivio al mondo: l’Ecpad, dove noi filmiamo i giovani militari che imparano a usare la cinepresa.

Come siete arrivati in quella scuola?
MP: Proprio perché è la scuola in cui viene custodito questo prezioso archivio militare: la casamatta è diventata il posto che custodisce le pizze della pellicola invece delle bombe e le armi.