È buio pesto in sala. Un’unica luce sulla destra della scena illumina un uomo abbandonato su una poltrona sghemba. Al suo fianco un vecchio giradischi su cui gracchia una canzone. L’uomo si muove, braccia e testa si accompagnano alla musica, il gesto viaggia per piccoli scatti infinitesimali, il corpo sulla poltrona si rilascia e si riprende, le mani toccano il viso, una fila di maschi in abito grigio appare sullo sfondo.
C’è già molta poesia in questo quadro d’apertura di The Roots (Radici) di Kader Attou nome chiave dell’hip hop d’oltralpe, fondatore nel 1989 del collettivo Accrorap. Un gruppo che ha fatto storia per l’impegno culturale e umanitario con titoli che si sono interrogati sulle problematiche dell’esilio, sull’Algeria in Francia, in un progetto sull’incontro possibile tra le culture fatto anche attraverso la danza.

The Roots ha chiuso la stagione di danza dei Teatri di Reggio Emilia l’altro ieri al teatro Ariosto, stasera è in replica al Ponchielli di Cremona. Attou è il primo coreografo di hip hop direttore in Francia di un Centro Coreografico Nazionale, quello de La Rochelle, contesto in cui The Roots è stato prodotto nel 2013.
È passato molto tempo da quando l’hip hop cominciò il suo viaggio da fenomeno spontaneo di protesta sociale non violenta, esploso nel Bronx intorno al 1970 e articolato nelle diverse forme espressive della danza di strada, del writing sui muri, del D.J.’ing e del M.C.’ing (rap), all’approdo in teatro nell’incontro con altre forme d’espressione.

Attou, che è del 1974, nato a Lione, padre di origine algerina, oggi ha 43 anni, ed è con Accrorap da quando ne ha 15. The Roots non sarebbe tale senza un tale background di vita e di sperimentazioni artistiche nelle quali la danza e i suoi linguaggi sono strumento per un racconto sull’uomo. Come diceva Pina Bausch alla quale pensiamo sarebbe piaciuto questo titolo: «Ci sono momenti in cui si resta senza parole, completamente perduti e disorientati, non si sa più che fare. A questo punto comincia la danza».
Così The Roots mette in scena undici danzatori maschi, tra i migliori protagonisti delle più diverse declinazioni dell’hip hop, che trasformano le esibizioni solistiche in partecipata storia collettiva. Attou è magistrale nella coreografia del movimento nello spazio. Su un’immagine di sfondo sabbiosa, evocativa di paesaggi naturali, terra, montagna, deserto, Attou sfodera gruppi di danzatori in abito grigio e camicia che si muovono all’unisono, passi veloci, moti sospesi, equilibri del corpo in appoggio sulla testa, giri vorticosi sulle mani con il corpo in orizzontale, disarticolazione del movimento, persino tip-tap.

Attou usa il virtuosismo della tecnica con taglio drammaturgico giocando tra assoli che si trasformano in duetti, terzetti, masse raccontando relazioni e sfumature. Così quando la scena diventa un salotto con lampada, divano e tavoli, gli undici creano quadri di famiglia in un interno, suggerendo attraverso la composizione coreografica rapporti mutevoli tra individuo e società. I tavoli, che hanno il piano elastico, diventano uno spazio per il confronto corpo a corpo, un luogo dove salire per poi rimbalzare via con un salto mortale.

La musica alterna ritmi elettronici a Brahms e Glazunov, le percussioni all’esplosione romantica dei violoncelli, sulla quale si danza in breaking con effetto commovente. È un duetto in cui l’andare insieme piroettando nella gravità con il corpo a un centimetro da terra diventa fraternità di sensi. E quando un danzatore, tra gli altri che lo circondano, ruota veloce nella luce rossa in equilibrio su una mano, la tecnica da virtuosismo si muta in battagliero richiamo per i compagni e per noi. Attou: «Parto dalle radici per andare verso la memoria dei corpi. The Roots rappresenta il frutto di questa ricerca: attingere da questa danza generosa per scoprire nuovi cammini». Come se la danza fosse una voce interiore dentro il movimento: e così è, regalandoci un’energia contagiosa, utile per guardare avanti