«La stoffa dei sogni» è la materia di Prospero e di Calibano, l’eterno shakespeariano metafora oltre il tempo del teatro e del suo potere di «smascheramento» della realtà.
E alla Tempesta di Shakespeare si ispira Gianfranco Cabiddu per questo suo La stoffa dei sogni: Shakespeare e Eduardo, di cui prende la traduzione del testo shakespeariano mescolandola con L’Arte della commedia. Il risultato è una scrittura composita ma sempre fluida che riesce a distillare nelle immagini i sentimenti e la lievità della sua materia, quel gioco di vero e di falso che si confondono e si mescolano rivelando nella messinscena la natura ingannevole e illusoria delle cose.

Tutto comincia con un naufragio, una barca con quattro mafiosi destinazione l’Asinara viene sbattuta sulle rive. Nella tempesta i detenuti avevano cercato di fuggire uccidendo il comandante. Sulla spiaggia piena di sole si ritrovano anche il capocomico Campese (Sergio Rubini), la moglie e le figliolette e l’attore, sgangherata compagnia di giro che viene presa in ostaggio dai camorristi con la minaccia di ucciderli se non li coprono.

I carabinieri li cercano, il direttore del carcere (Ennio Fantastichini) li vuole in manette. Ha capito che nel gruppo qualcuno mente e per scoprirlo gli proporrà di mettere in scena La Tempesta. Lui conosce bene il teatro, la moglie era attrice, lo ha lasciato tanti anni prima, insieme alla figlia ora giovane donna ribelle e stufa di vivere su quell’isola deserta. Si chiama Miranda, anche lei come un personaggio della commedia e nel bosco l’attende l’amore che intreccia i destini dei tre padri, i tre Prospero la cui bacchetta vibra verso tempeste diverse di scontri, conflitti, sentimenti paterni e filiali.

Cabiddu riesce a costruire un equilibrio ben modulato tra i luoghi e la loro bellezza, la luce e il colore del mare, mai sfondo ma sempre parte della narrazione che trovano voce nella figura di Calibano, il pastore, e nella sua ostinazione a difenderli dalle invasioni straniere. E il gioco degli attori, tutti sintonizzati con i loro ruoli, a cominciare da Sergio Rubini, sempre coi toni giusti per il suo Oreste Campese, il capo comico che chiede comunque rispetto per il suo mestiere. Che come questo film, al di là dei suoi racconti, dei suoi intrighi e dei suoi equivoci esprime una riflessione sul ruolo dell’arte e dell’artista, che è quello di essere nel mondo ma insieme di rivelarne l’essenza come quando il telone cade e la trama delle vite prende all’improvviso un’altra direzione.

E come il capocomico questo film rivendica la sua libertà di invenzione, di non esser perimetrato dentro il sistema dominante come quello stesso gusto «artigianale» con cui gli attori sull’isola fabbricano il loro palcoscenico e cuciono i costumi.
La stoffa dei sogni è un’opera fuoriclasse che le sue corrispondenze le fa affiorare nelle passioni del regista e non nelle mode o nei format di mercato, il teatro, i suoi «maestri», ma anche (forse soprattutto) l’immediatezza di un’improvvisazione che nasce da un lavoro lungo, attento, dalla ricerca e da idee non scontate.

Senza trucchi che non siano invenzioni: un vecchio libro con le illustrazioni della Tempesta, un continuo gioco come è essere in scena. È questa anche la capacità di riguardare ai «maestri», di farne propri gli insegnamenti senza cadere nella sola citazione o nella ripetizione di un modello. C’è qualcosa di commuovente in questo sguardo ma soprattutto l’energia di ricondurre dentro al teatro – e piú in genere all’immaginario – il mondo. Le sue leggende, il passato e il presente.