Il mistero della «stella di Tabby» è stato risolto: quasi certamente, la stella non è abitata da alieni con grandi competenze tecnologiche. Sono le conclusioni di uno studio di prossima pubblicazione sulla rivista The Astrophysical Journal Letters e firmato da oltre duecento scienziati sparsi in tutto il mondo. «Stella di Tabby» è il nomignolo con cui è divenuta famosa la stella Kic 8462852 e proviene dal nome dell’astrofisica statunitense Tabetha Boyajian: nel 2015, fu lei a segnalare la stella all’opinione pubblica. Boyajian è anche la responsabile della ricerca che ora farà calare l’attenzione mediatica intorno all’astro.
Per molti versi, Kic 8462852 è una stella come tante: è una volta e mezza più grande e mille gradi più calda del nostro Sole, la cui superficie arde a circa 5500 gradi. Come il Sole, si trova nella fase più stabile della sua evoluzione, che durerà presumibilmente qualche miliardo di anni. Non è stata scoperta da uno scienziato ma dai volontari del progetto Planet Hunters (cacciatori di pianeti). La Nasa, infatti, ha pubblicato su un sito web i dati raccolti dal telescopio spaziale Kepler, che dal 2009 orbita intorno al Sole insieme alla Terra e scruta lo spazio alla ricerca di sistemi planetari simili al nostro. Ai cacciatori di pianeti è stato chiesto di osservare le variazioni di luminosità delle stelle. Queste oscillazioni rappresentano un indizio del probabile transito di un pianeta, che fa temporaneamente «ombra» alla stella, e possono essere rilevate semplicemente guardando un grafico che sale e scende. Un compito alla portata di tutti.

LE VARIAZIONI della luminosità della stella di Tabby sono subito apparse molto strane. Mentre i pianeti provocano oscillazioni regolari della luce, la radiazione proveniente da Kic 8462852 segue andamenti imprevedibili, con periodi di graduale aumento o diminuzione della brillantezza, e bruschi cambiamenti di luminosità pari anche al 20% in un solo giorno.
Normalmente, la luce emessa da una stella di questo tipo è più uniforme: nel Sole, per esempio, l’intensità luminosa oscilla appena dello 0,1% lungo cicli di undici anni. Dunque, variazioni grandi e imprevedibili come quelle osservate su Kic 8462852 hanno immediatamente attirato l’attenzione degli scienziati, che hanno elaborato varie teorie per spiegarle. Nell’ottobre del 2015, l’astronomo Jason Wright della Penn State University (Usa) ha avanzato l’ipotesi che le variazioni di luce proveniente dalla stella fossero spiegabili con la presenza di megastrutture artificiali situate intorno alla stella costruite da una civilità extra-terrestre. Ovviamente, era solo una delle tantissime possibilità, perché a bloccare la luce potrebbero essere frammenti di materiale interstellare più o meno grandi. Pochi scienziati, a partire dalla stessa Boyajian, la presero sul serio. Ma, altrettanto ovviamente, l’ipotesi di Wright è stata quella che più ha rimbalzato sui media e sui social network, facendo della stella una celebrità pop.

DEL SENSAZIONALISMO, tuttavia, hanno beneficiato gli stessi scienziati. Per risolvere il mistero, infatti, Boyajian e colleghi hanno organizzato una raccolta di fondi sul sito Kickstarters.com, normalmente utilizzato per finanziare dal basso la produzione di gadget tecnologici solitamente inutili, ma anche di libri e dischi che non compra nessuno. Grazie al tam-tam virtuale, Boyajian ha raccolto oltre centomila dollari in un mese, serviti a finanziare osservazioni più esaustive da decine di telescopi in tutto il mondo. I risultati sono quelli ora pubblicati da Astrophysical Journal Letters: a bloccare la luce proveniente dalla stella non sono corpi massicci come pianeti o megastrutture artificiali, ma granelli di polvere cosmica di dimensioni molto inferiori al micron.

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Fine dell’ipotesi aliena, dunque? Sì, ma solo temporaneamente. In queste ultime settimane, l’ipotesi degli extra-terrestri è stata sollevata anche per l’asteroide Oumuamua, dalla stranissima forma a «sigaro», verso cui sono stati puntati i telescopi alla ricerca di onde radio, caso mai si tratti di un’astronave aliena (spoiler: non lo è). I cacciatori di alieni hanno studiato anche un’altra stella, nome in codice Frb 121102, che emette lampi di raggi gamma con strane ripetizioni. Anche qui, per ora prevale lo scetticismo. Ma i cacciatori non demordono.

La ricerca di segnali alieni infatti sta vivendo un periodo di grande splendore nonostante l’assenza di risultati che vadano oltre la «suggestiva ipotesi». Per molti magnati dell’industria high tech, finanziare progetti scientifici finalizzati alla ricerca di segnali extraterrestri è diventato un passatempo alla moda per quanto costoso. Per rendersene conto, basta scorrere la lista dei finanziatori del Seti Institute (Search for Extra-Terrestrial Intelligence, o ricerca di intelligenze extra-terrestri), la principale organizzazione di ricerca dedita allo scopo. Tra i fondatori e i finanziatori figurano molti grandi manager di imprese del calibro di Intel e Hewlett-Packard, fondamentali soprattutto da quando, nel 1993, alla Nasa è stato proibito di finanziare la ricerca Seti. Oggi i centri di ricerca del Seti Institute sono ospitati in università di primo livello, come la californiana Berkeley. E ora l’istituto si prende la rivincita di partecipare come partner della Nasa alle missioni spaziali.

DA PARTE SUA, anche il confondatore della Microsoft Paul Allen ha dato il suo nome e i suoi soldi a una rete di telescopi sintonizzati sugli alieni. Il businessman russo Yuri Milner, invece, ha investito 100 milioni di dollari per i prossimi dieci anni in Breakthrough Listen, un ambizioso progetto che intende intercettare eventuali segnali radio provenienti da oltre un milione di stelle. Per sue le ricerche, Milner utilizzerà (a pagamento) alcuni tra i più grandi radio-telescopi del mondo, come lo statunitense Green Bank Telescope da cento metri di diametro e l’australiano Parkes Observatory. Grazie a nuovi algoritmi di analisi dei dati, Milner prevede di riuscire ad avvistare una lampadina da 100 watt a quarantamila miliardi di chilometri di distanza.

COME SI VEDE, non si tratta dell’«ufologia» popolare, mai uscita dallo status di sottocultura pseudo-scientifica nonostante le migliaia di testimonianze presunte. La ricerca delle intelligenze extra-terrestri ora assume i contorni della Big Science. E gli standard di ricerca si sono elevati, rispetto ai tempi delle leggende sull’Area 51. Oggi prevale una visione «informazionale» degli extra-terrestri: per rilevare la presenza di alieni, bisogna decifrare eventuali messaggi contenuti nelle onde elettromagnetiche di origine cosmica, che a differenza delle astronavi potrebbero raggiungerci dalle regioni più remote dell’universo.
D’altra parte, il cosiddetto «paradosso di Fermi» andrà prima o poi risolto: perché dai miliardi di miliardi di stelle simili al sole che abitano il nostro universo non si è mai manifestata una forma di vita abbastanza avanzata da raggiungerci? Sulla Terra, vecchia di circa quattro miliardi e mezzo di anni, ne è bastato un miliardo per vedere comparire le prime forme biologiche. Evidentemente, la vita nell’universo non è un evento così improbabile. E allora: dove sono tutti quanti?

È UNA DOMANDA suggestiva, ma per allestire un progetto di ricerca internazionale la suggestione non basta. Se una scienza rigorosa come la fisica ha aperto le sue porte a questi improbabili progetti forse è per ragioni assai più terrestri. La ricerca degli extra-terrestri è anche un laboratorio in cui sperimentare le forme di finanziamento della ricerca di base, ora che i governi puntano tutto sull’innovazione a breve termine. Per studiare le stelle oggi si può chiedere l’aiuto ai «cacciatori di pianeti», raccogliere fondi via web o bussare ai manager del Web, che pur di non dare i soldi al fisco finanzierebbero qualunque cosa.
Ma gli scienziati non possono permettersi tanti scrupoli. La caccia agli alieni è una boccata di ossigeno per laboratori storici come i grandi radiotelescopi, che persino negli Usa fanno fatica a racimolare finanziamenti. L’osservatorio di Mount Wilson, che quest’anno festeggia cento anni, ormai ospita più turisti che ricercatori. Il telescopio di Arecibo (Portorico) l’anno scorso è stato salvato in extremis dalla demolizione. Anche il Green Bank Telescope, senza i fondi di Milner, farebbe fatica a tirare avanti. Se Babbo Natale non esiste, puntiamo tutto su E.T.