Mettere insieme la storia del movimento operaio e socialista con la riflessione sull’antisemitismo, ovvero sul suo uso politico come alternativa alla lotta di classe, quindi come sua profonda distorsione non solo morale ma anche e soprattutto sociale e culturale, è un lavoro al quale diversi studiosi francesi si sono ripetutamente dedicati. L’esistenza di una gauche reazionaria che, agli obiettivi di promozione degli interessi dei ceti che rappresentava univa la visione razzista delle relazioni sociali, in ciò incontrandosi con le classi dirigenti dell’epoca, a cavallo tra due secoli, impegnate nella spartizione dell’Africa, è parte fondamentale di uno studio dell’intelaiatura non solo dei nazionalismi dell’epoca ma anche dei processi di accesso alla sfera pubblica delle masse popolari.

QUANTO IL RICORSO sistematico al pregiudizio più radicato abbia fatto da sponda promozionale ai movimenti e ai partiti del radicalismo di destra, soprattutto dopo la conclusione della Grande guerra, con l’affermazione del fascismo, sono i fatti storici stessi che si sono incaricati di sottolinearcelo. Poiché gli uni e gli altri, in quanto destra di movimento, hanno costruito le loro piattaforme politiche e di consenso attraverso l’aggregazione delle collettività su temi di diffusa sensibilità. Che a ciò si accompagnasse un elevato grado di manipolazione, poco o nulla cambia nell’orizzonte del discorso. Semmai ci interroga, ancora nel tempo corrente, su come la costruzione di una macchina mitologica qual è l’antisemitismo, riesca a sostituirsi, nel suo camaleontismo, al riscontro dei fatti. Trasformandosi esso stesso in evento politico, capace di riordinare una società nei suoi momenti di crisi. Parrebbe quasi una banalità il ricordarlo ma, in tempi dove all’ipertrofia della memoria e ai confusi rimandi al discorso storico, in forma frammentata, si accompagnano fenomeni di diffuso sradicamento sociale e culturale, il tornarci sopra ha un qualche valore. Soprattutto, in un’epoca che è di asfissiante presentismo, dove tutto viene appiattito in una sorta di tempo totalizzante, quello del momento esistente. Senza alcuna profondità prospettica.

Indagare negli anfratti dentro i quali si consumavano rapporti tanto umbratili quanto persistenti, tra gruppi impegnati nella «questione sociale» e quelli ossessionati dalla sua trasformazione in dimensione etno-razziale, rimanda quindi non solo ai lessici politici, così come ai protagonisti, di un’epoca per sempre trascorsa, ma anche all’arsenale di battaglia dei populismi e degli identitarismi odierni.

L’OCCASIONE per una riflessione di ampio raggio è ora offerta dalla pubblicazione del volume di Leonty Soloweitschik, Un proletariato negato. Studio sulla situazione sociale ed economica degli operai ebrei (Biblion Edizioni, pp. 212, euro 20) per l’efficace curatela di Maria Grazia Meriggi, che offre anche un denso saggio introduttivo. La quale da subito chiarisce che «la tesi che l’autore sostiene – l’esistenza di un proletariato ebraico – dovrebbe apparire un’evidenza e invece fu al centro di una animata discussione anche nel movimento operaio e socialista in Occidente e interferisce col caso Dreyfus, che vide al centro del dibattito proprio il fantasma dell’identificazione del mondo ebraico con le classi dirigenti economiche della modernità».

Il punto di partenza, infatti, sta nel titolo medesimo, Un prolétariat méconnu, che ha tre radici: l’articolo indeterminativo, che inserisce il gruppo socio-professionale-identitario dentro un sistema a cerchi concentrici, dove coesistono (ed interagiscono) altri proletariati, tali poiché depositari di storie e di traiettorie peculiari; il primo significato attribuito a méconnu, che rimanda a «sconosciuto»; il secondo, che indica il «rimosso». Sconosciuto poiché per nulla indagato, partendo dal falso presupposto che tra gli ebrei non si ponesse la condizione proletaria, altrimenti legata non solo al lavoro svolto, e alle condizioni condivise, ma anche alle culture sociali, materiali e alle relazioni di classe proprie di una dimensione universale. Rimosso in quanto espunto da qualsiasi orizzonte politico, di mobilitazione collettiva, nonché riformulato, in quanto fantasma sociale, come simulacro di ciò che si intende invece abbattere, ovvero «il capitale».

Il testo, tesi di dottorato discussa a Bruxelles e poi pubblicata nel 1898, si presenta come un lavoro del tutto originale, integralmente pionieristico, estremamente ricco di dati e di fonti inedite. A tratti quasi erratico poiché cerca di tenere insieme una molteplicità di elementi che l’autore stesso si impone di ricondurre ad una coerenza che non sia solo descrittiva ma anche analitica. Intreccia quindi uno sguardo geografico che cerca di coniugare l’Europa occidentale ed orientale, gli Stati Uniti e la Palestina ottomana, il Mediterraneo e l’East End londinese.

LA CURIOSITÀ SOCIOLOGICA, la cognizione civile e l’orientamento analitico per il tema derivavano all’autore anche dal suo essere lituano, quindi a diretto contatto non solo con un significativo segmento degli opifici e delle imprese che avevano dato forma al proletariato ebraico ma anche con quei mondi dell’emigrazione che a cavallo tra due secoli lo avevano scomposto e ricomposto in terre diverse da quelle d’origine. L’avere studiato in paesi e terre francofone (a Ginevra e poi a Bruxelles) lo aveva messo a diretto contatto non solo con alcuni aspetti della diasporicità ebraica ma anche con i pregiudizi che ad essa si accompagnavano. Soprattutto nel campo di una parte delle sinistre francese e belga, che in alcune loro componenti si rivelarono due cuori pulsanti nella formulazione di un apparato antisemitico contemporaneo, assai più prossimo, oltre che all’insieme di credenze popolari, anche al suo uso moderno, come strumento di mobilitazione e organizzazione di aspetti della stessa conflittualità operaia.

L’IDEALIZZAZIONE di una trasformazione radicale attraverso il ricorso a costrutti dove all’identità sociale si ricollegava quella etnica, nonché per più tratti deliberatamente razzista, insieme alla formulazione dei processi migratori come minaccia per la compattezza del «proletariato nazionale», trovava in quel contesto un valido brodo di coltura. Che sarebbe stato ripreso, in suggestioni ripetute ed enfatizzate per tutta la prima metà del Novecento, da quelle componenti poi precipitate nella collaborazione con l’occupante nazista, in una lunghissima coda velenosa dell’affaire Dreyfus, le cui ombre avrebbero superato anche il 1945.
Si tratta di una complessa, discontinua ma ripetuta genealogia di gruppi, movimenti ed organizzazioni dove l’indice di riferimento e di sintesi è il ricorso all’uso anticapitalistico del pregiudizio antisemita. Soloweitschik ci offre in prospettiva una tale visuale, alimentata per parte nostra dal senno del poi, partendo da alcuni tracciati storici che rimandano allo studio delle comunità ebraiche come complesso insieme di soggetti collettivi fortemente stratificati al proprio interno. Smentendo il puerile ma disastroso convincimento, a tutt’oggi ancora radicato, che l’equazione tra ebraismo e borghesia (quindi, per non pochi, tra modernità e perversione della «natura sociale» dei popoli), sia un’evidenza storica.

PUNTUALMENTE, la curatrice Meriggi rileva alcune cose. La prima di esse è che la conclusione dell’affaire Dreyfus aveva comportato l’attenuarsi della tentazione di ricorrere in chiave diffusa all’antisemitismo come dotazione dell’armamentario anticapitalista. Ma non ne avrebbe cancellato gli echi di lungo periodo. Un secondo aspetto, è che «l’osservazione sulla minor gravità con cui il problema si pone nel socialismo italiano non va interpretata come assoluzione o generica rimozione di episodi e di toni che pure sono emersi ma deve essere considerata comparativamente con il socialismo francese». A tale riguardo, «l’antisemitismo in quasi tutti gli interventi ad esso dedicati dalla stampa socialista italiana non è ritenuto un problema specifico del nostro paese. Era innanzitutto una delle tante manifestazioni dell’alleanza oscurantista fra reazione politica e religione. L’alleanza fra «la sciabola e l’aspersorio» era particolarmente evidente nel militarismo francese che contrapponeva «la repubblica» alla «Francia». In Italia «la partecipazione di molti ebrei delle esigue comunità degli antichi Stati al movimento risorgimentale e la partecipazione di molti di loro al movimento socialista sembravano garantire un’integrazione dimostrata dalla distribuzione degli ebrei stessi in tutto l’arco delle possibili scelte politiche». Qualcosa, come ribadisce Meriggi, «che sarà messa in discussione soprattutto dalle diffidenze dei nazionalisti a partire dagli anni ’10 del Novecento, prima delle discriminazioni razziali e poi antisemite del regime fascista».