Per il suo nuovo film Albert Serra si è ispirato a due opere, le Mémoires di Saint Simon e le Mémoires del marchese di Dangeu, i cortigiani che hanno assistito nella sua lunga agonia Luigi XIV, e con i loro scritti «letterari e storici» hanno voluto descriverne ogni istante fissandola così in una sorta di eternità. È sulla figura del sovrano morente, infatti, che è costruito La morte di Luigi XIV, un film sorprendente e un’esperienza artistica di grande potenza che conferma il regista catalano tra quegli artisti contemporanei in grado di reinventare gli immaginari. E anche la scarsa preveggenza del festival che aveva qui il suo capolavoro e lo ha invece relegato in una proiezione quasi invisibile.

Un film di corpi e di sovrani, quello del Re Sole in disfacimento che nei Lumi del suo secolo precipita verso il buio, e quello dell’attore che lo interpreta, il leggendario Jean-Pierre Léaud. Cannes 69 gli ha reso omaggio, potremmo dire che lui ne racchiude quasi la storia: ragazzino selvaggio nei Quattrocento colpi, la Nouvelle vague e il sessantotto, Eustache e La Maman et la Putain, un corpo il suo di cinema folle e estremista che a oltre settant’anni continua a essere attraversato dall’impertinenza della giovinezza: solo lui poteva dare a questo Re morente vita e una «verità» dolorosamente infantile che lo accompagna fino alla fine.

Serra – autore del soggetto insieme a Thierry Lunas, anche produttore per Capricci – rende attraverso questa fusione la figura astratta del sovrano estremamente fisica, «reale» e carnale, trasportandola dalla dimensione assoluta della Storia a quella del suo fuoricampo; un quotidiano ordinario, banale persino, di sofferenza e gesti infinitamente ripetuti.

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Il racconto della malattia di Luigi XIV è essenziale, composto di dettagli che ne registrano l’avanzata inesorabile. Le due settimane che precedono la sua morte, l’1 settembre del 1715, scandiscono una cronologia del dolore, i segni di una malattia indocile a qualsiasi rimedio sia esso accademico che quasi magico del ciarlatano che vende elisir di speranza. La gamba che la cancrena mangia implacabile, le labbra che si spaccano per la febbre, la stanchezza, l’oblio in cui galleggia adagiato, quasi perduto nel letto rosso porpora, i capelli che pesano più di una corona mentre cerca di disporre la sua successione.

Serra non esce mai dalla stanza del Re, illuminata con le candele, composta in una dimensione pittorica che non è quella delle battaglie, dei trionfi, delle architetture magniloquenti a cui siamo abituati dal’autorappresentazione eterna del potere. Il re del film immobile e orizzontale, sfinito, e questa è la linea che guida lo sguardo del regista. L’immagine di una Storia trionfante sfuma nella luce crepuscolare, la totalità si manifesta in un dettaglio: il ginocchio del sovrano, le mani che scacciano regalmente un fastidio. La tirannia è quasi un capriccio, il divertimento di esercitare ancora il suo potere sulla corte, i ministri, i medici tutti pronti a esaudire ogni desiderio. Disperati quando chiude la bocca anche ai suoi cibi prediletti, che applaudono una cucchiaiata di uovo inghiottita al mattino o un morso al biscotto come fossero grandi conquiste. Che scrutano ogni piega, ogni silenzio, ogni gemito.

Soffre il Re ma il suo dolore più grande è non vedere gli adorati cani che il dottore per la sua salute ha allontanato dalla stanza.
Tra quelle mura nel corso delle lunghe giornate si alternano emissari di altri potenti, cardinali, cortigiane. Il re al bimbo che sarà il suo successore raccomanda malinconicamente di non fare tante guerre e di non celebrare fastose architetture come lui.

I dottori si consultano, chiamano altri luminari nonostante il parere contrario del medico del re. L’accademia della Sorbona la considera una commedia di Molière, e quel guaritore che arriva da Marsiglia un imbroglione. Alla malattia cerca risposte nel cosmo, la sifilide è una rosa, la malattia una forma d’amore.

Giorno e notte sembrano non esistere in quello spazio chiuso dove manca l’aria, le figure al capezzale del Re somigliano ai dottori di una fiaba mentre sussurrano quello che non si può nemmeno dire, quello che fuori di lì non si deve sapere, l’ipocrisia ufficiale che circonda la sua morte.
Serra spoglia la narrazione da qualsiasi enfasi sentimentale, dall’aneddoto come dall’ufficialità. Il suo re è un corpo ma è proprio questa cifra scarnificata , quasi impercettibile a denudare la natura del potere come mai accadrà in qualsiasi romanzo di intrighi a corte o sul campo di battaglia. I suoi riti codificati si illuminano nell’epifania improvvisa del sorriso da bimbi che compare sul viso sovrano mentre ascolta per l’ultima volta la musica per la festa di Saint Louis,. O nel dispotismo che esercita su coloro che sono al suo capezzale. La notte la bocca brucia, lui grida ma rifiuta l’acqua se non viene servita in un bicchiere di cristallo.

Il corpo del potere, dunque, e insieme quello dell’arte che vi si misura. Cosa significa rappresentare il potere? Quale è lo spazio della sua messinscena? L’umano e la storia, la vita terrena e l’eternità dell’arte. È su questo equilibrio fragilissimo e complesso che Serra ci mostra sempre i suoi personaggi, figure letterarie, come Don Chisciotte o Casanova, mitologiche come i Re Magi, e ognuna di loro viene «tradotta» in una dimensione quotidiana, l’altro lato della leggenda, che nel rivela l’inquietudine, grottesca, ironica, crudele.
Per questo oltre che magnifico nella sua ricchezza di piani e di suggestioni, il cinema di Albert Serra, e questo film, è radicalmente rivoluzionario. Il suo universo rovescia ogni convenzione, riformula il pensiero e la storia. Con intelligenza e passione.