Bisognerebbe cominciare denunciando la propria estenuata stanchezza di spettatore: se il covid ci ha tolto gli spettacoli veri, da andare a vedere, gradire o sgradire, e quindi applaudire o rifiutare, quello che resta in piedi è il focolaio pernicioso di quanto sta sopra il palcoscenico. Invidie, livori, candidature e autocandidature, trame politiche e ambizioni personali, che passano indenni attraverso le maglie del virus. Ora qualche nomina in scadenza e qualche cda pure arrivato al rinnovo, sono stati in grado di scatenare polemiche e invettive, e quindi paginate intere sui giornali, come neanche Ronconi o Pina Bausch hanno avuto.
Prima c’è stato il passaggio delicato al Teatro di Roma, con la decisione di abbandono da parte di Giorgio Barberio Corsetti della carica di direttore unico per riservarsi la sola consulenza artistica. Da lì si è innescato un gioco perverso di improvvisati azzeccagarbugli della cultura, sulla liceità delle decisioni di un consiglio d’amministrazione che gli enti locali hanno colpevolmente (questo sì) tardato a rinnovare. Qualcuno ne ha voluto approfittare per rimettersi in pista, con fanfare sui siti internet come sulle pagine dei maggiori quotidiani, compreso chi da quegli incarichi era stato, seppur tardivamente, estromesso.

ORA CHE LA SITUAZIONE al Teatro di Roma si è ricomposta (seppur con qualche piccolo neo), esplode il «caso» del Piccolo teatro milanese, il padre di tutti gli stabili. Il direttore Escobar giunge a scadenza tra pochi mesi dopo molti anni di incarico (a titolo gratuito per la legge Madia). E la guerra, ancor più strillata e faziosa, riesplode sui giornali (sempre perché spettacoli veri di cui parlare non ce n’è). Il motivo è una lettera del personale del Piccolo che chiede al proprio cda di rinnovare la direzione, per garantire la ripartenza del teatro. E i giornali pullulano di schieramenti e candidature, improbabili del resto finché non si sa chi vincerà tra virus e teatro.
Subentrano qui la stanchezza, e anche l’amarezza, del semplice spettatore. Perché in realtà nessuno, che pure ne abbia potere e responsabilità, si è ancora applicato a indagare o progettare come potrà essere il teatro (con le sue caratteristiche, che sono costituzionalmente e imprescindibilmente «dal vivo») dopo la pandemia. Cosa si dovrà inventare non solo per la produzione e realizzazione (con le mille professionalità che richiede, sul palco e fuori) il fare spettacolo, né tanto meno quale sarà la reazione del pubblico, che legittimamente sarà governata dalla paura del contagio inoculata dall’isolamento di questi tre mesi. Perché coi minori incassi dal pubblico verrà a mancare la percentuale maggiore dei bilanci teatrali, oltre a segnare la fine di un linguaggio artistico plurimillenario. Bisognerebbe pensare, pur nei ranghi ridotti dal distanziamento, di tenerlo in vita non con semplici elargizioni algoritmiche, ma partecipando magari ai mancati introiti da virus. Intervenendo insomma a far continuare a vivere le compagnie, gli artisti e le maestranze che il teatro fanno.

SARANNO scelte delicate, politiche e umane. Ma le premesse non promettono: si sciorinano le candidature dei soliti nomi, e la politica si distingue al peggio. Il giorno dopo il grande flashmob di migliaia di artisti e le disavventure del cda dell’Argentina, Franceschini vi ha nominato sua rappresentante una signora delle cronache mondane (unica referenza documentata da Dagospia), per di più dipendente dell’Auditorium, ente fratello/concorrente dello stabile. E buon gusto e sazietà impediscono ora di aprire il capitolo sulle stupende blatte di Renzo Piano, che se non ci fosse Santa Cecilia a rianimarle nei suoi appuntamenti, sarebbero da un pezzo gusci vuoti e inutili…