La coperta egiziana è corta. Lo è per chi in Italia pretende la verità dal presidente-alleato al-Sisi e lo è per i tanti egiziani che in queste ore inondano di commenti i social network e i giornali online. Le domande, le nostre e le loro, sono le stesse. Perché una banda di criminali avrebbe dovuto torturare per giorni uno straniero a fini di rapina, perché la polizia rifiuta di rispondere alle legittime domande poste dalla stampa alternativa, perché i malviventi – descritti come dediti a frodi e rapine, specializzati nelle aggressioni a cittadini stranieri – avrebbero tenuto con sé i documenti di Giulio per due mesi.

Il quotidiano online indipendente Tahrir News fa un passo in più ed elenca le palesi contraddizioni della versione spacciata dal governo: le fotografie dei cadaveri dei quattro criminali, rese pubbliche poche ore dopo la loro uccisione dalla polizia e ripubblicate dal giornale, mostrano volti di ragazzi sui 20-30 anni. Eppure, nel post di giovedì notte sulla pagina Facebook del Ministero, agli uccisi vengono attribuite altre età: 26, 40, 52 e 60 anni. Chi sono quindi, si chiede il quotidiano, quei quattro cadaveri? Perché accanto ai loro corpi non si vedono armi da fuoco?

E perché la polizia non ha avvertito gli investigatori italiani al Cairo dell’intenzione di compiere un raid per catturare gli assassini di Regeni, ma li ha massacrati senza tentare neppure di arrestarli? Eppure, aggiunge il quotidiano, avrebbero potuto confermare la versione governativa, liberando Il Cairo dei sospetti che da due mesi gli pesano sul capo.

Ci prova anche Ziad al-Emainy, ex parlamentare di sinistra, che usa la propria pagina Facebook per porre 12 domande ironiche e rispondersi da solo: «Perché la banda ha tenuto i documenti dello studente che aveva ucciso? Perché era nota per collezionare souvenir delle proprie vittime. Perché allora non ha tenuto souvenir delle precedenti vittime? Perché questo hobby è cominciato proprio con Regeni. Perché lo hanno torturato? Per farsi dare il codice della carta di credito».

Scorrendo i media egiziani, quelli meno vicini al governo di al-Sisi, le critiche si affollano. “Storiella”, “commedia”, “Hollywood movie”, le parole più frequenti nei titoli delle ultime edizioni. Masr al Arabiya racconta le torture, tipiche della brutalità di polizia e servizi segreti; Asharq Al-Awsat si domanda perché le autorità egiziane rifiutino ancora oggi di fornire alla controparte italiana le intercettazioni delle telefonate intercorse quella notte nella zona del rapimento di Giulio.

Sui social network la gente comune si scatena, tra insulti al ministro degli Interni Ghaffar e commenti ironici sui 15 grammi di hashish che la signora Rasha, sorella di uno dei criminali, si sarebbe già fumata da tempo se li avesse davvero avuti in casa. O sulle 5mila sterline egiziane mai spese. Il leitmotiv è lo stesso: il Ministero ci sta prendendo in giro, sta coprendo le solite nefandezze. E per farlo non ha esitato ad uccidere quattro persone che, il commento più comune, sono state giustiziate senza processo.

Simili i commenti di attivisti per i diritti umani: «Davvero interessante che una gang, specializzata in rapine, abbia torturato Regeni fino alla morte e poi abbia deciso di tenersi i suoi documenti a casa come souvenir», scrive Wael Ghonim. Torna a parlare anche il noto comico tv Bassem Youssef, che si rivolge direttamente al governo: «Sembri un bambino colto in fallo che prova a nascondere la sua colpa con una storia incredibile. Bassa qualità».

Diverso il tono dei quotidiani filogovernativi che si limitano a riportare la versione delle autorità senza farsi venire troppi dubbi, mentre nei media si affollano le dichiarazioni di parlamentari che difendono l’operato del ministro Ghaffar: «Rifiutiamo il tentativo di attribuire alla polizia questo crimine, volto solo a incitare la comunità internazionale contro l’Egitto», dice Mostafa Bakry.

Intanto, in collaborazione con gli investigatori italiani, le indagini proseguono, fa sapere la procura egiziana che finora pare essersi più volte discostata dalla “verità” a senso unico del governo.

Ieri quattro parenti del capo della banda, Tarek Abdel Fattah, sono stati arrestati. La moglie, la sorella, il fratello e il cognato sono accusati di complicità e favoreggiamento, per aver coperto un criminale e averne nascosto la refurtiva. Ad inchiodarli, secondo gli investigatori, sono gli effetti personali di Giulio ritrovati in casa di Rasha, sorella di Tarek. Proprio lei, però, insieme alla moglie di Abdel Fattah, avrebbe affermato durante l’interrogatorio che la banda non ha mai ucciso Giulio. Lo riporta il quotidiano egiziano al Masry al Youm che aggiunge che, nelle dichiarazioni rilasciate agli inquirenti egiziani, la moglie ha sì menzionato la borsa rossa ma per dire che era stata consegnata al marito pochi giorni prima «da un amico».

Quella famosa borsa rossa – dentro cui erano ridicolmente nascosti documenti, occhiali da sole, hashish, un portafoglio da donna, telefoni cellulari e carte di credito – non appartiene a Regeni. Ad affermarlo sono gli amici del giovane ricercatore che, intervistati da Tahrir News, dicono di non avere mai visto quella borsa né gli occhiali da sole. Non appartenevano a Giulio, spiega Mohammed Sayed, il suo coinquilino nell’appartamento di Dokki. Come non era suo, aggiunge un altro amico, Amr Asaad, l’hashish: Giulio non fumava.