Mentre si registra un’impennata di traffico sui siti news, e le edizioni digitali dei giornali vengono aggiornate ossessivamente da un pubblico di forzati della tastiera gli arresti domiciliari, nell’incipiente crisi barcollano pericolosamente molti dei giornali riusciti in qualche modo a sopravvivere agli ultimi anni.

A fronte dell’aumento degli utenti online, col prossimo tracollo economico si prospetta infatti un collasso delle inserzioni da cui dipendono le testate, soprattutto nel regime di libero mercato che vige negli Stati uniti. Fra i settori azzerati dalla pandemia vi sono turismo, ospitalità, ristoranti, sport, musica, eventi e spettacoli… La violenta contrazione non potrà che accelerare (se così si può definire un tonfo verticale) il declino di introiti pubblicitari verso i giornali.

Si registrano già ad un ritmo preoccupante le chiusure di giornali locali ed indipendenti, dalle redazioni già comunque decimate e dai bilanci incrinati dal vuoto pubblicitario creato dai giganti social. Un rapporto pubblicato dall’osservatorio sul giornalismo di Harvard, Nieman Labs, si concentra sugli “alternative weeklies” che si stampano ancor in molte città americane. Il titolo: «Annientamento totale?». Nel caso di questi settimanali cittadini liberi, cronicamente sotto finanziati e quasi interamente dipendenti da inserzioni di ristoranti e spettacoli locali, il crollo di proprio di questi settori è praticamente un colpo di grazia.

Prossime a doversela vedere con una imminente crisi economica potenzialmente catastrofica saranno le emittenti del circuito “public radio” dipendenti dalle sottoscrizioni. In molti casi queste sono state annullate per poter aggiornare quotidianamente le dirette sull’emergenza. In ogni caso il momento di dilagante incertezza non è certo propizio ai contributi volontari, declassati di fronte alle emergenze personali. I siti online – molti dei quali (come il manifesto) hanno eliminato i paywall – in molti casi sono appesi ad un filo. Se pure l’attuale stretta dovesse allentarsi, la prospettiva di una recessione prolungata è lugubre per un settore già orfano di “business model”, che potrebbe non sopravvivere. Per molti l’orizzonte si è verosimilmente ristretto pochi mesi – o settimane.

Come per molte altri settori la crisi ha esplicitato in maniera esplosiva dinamiche in atto già da anni, una realtà destinata a penalizzare anche e in primo luogo l’arcipelago sempre più vasto di precari e freelance che caratterizzano il giornalismo di era digitale.

Ne si tratta solo degli in USA – dall’Australia all’Inghilterra le notizie si moltiplicano e si prospetta un bagno di sangue che potrebbe travolgere – come sta avvenendo anche con l’editoria o la musica – testate non legate a grandi conglomerati. Craig Aaron direttore di Free Press, associazione di settore, lancia l’allarme:«in un momento in cui servono più che mai rischiamo di restare con molti meno giornalisti». In un appello pubblicato dalla Columbia Journalism Revue, Aaron chiede che vengano raddoppiati i contributi federali per l’informazione, di stanziare contributi mirati a redazioni locali (negli ultimi quindici anni hanno chiuso 2000 testate regionali) e la creazione di un fondo a favore della libera informazione. Non che vi siano grandi probabilità di un azione governativa. Nei $2200 miliardi di manovra di emergenza appena stanziati non vi è riferimento specifico al comparto informazione, notoriamente non oggetto di simpatia da parte del presidentissimo (che semmai la radio pubblica nazionale, NPR, ha cercato di chiuderla).

Su The Atlantic Steven Waldman e Jack Sennott propongono che il governo indirizzi una parte della comunicazione di pubblica utilità (una spesa attuale di un miliardo di dollari anche per via dell’emergenza sanitaria) verso giornali minori e locali, invece di concentrarsi solo su piattaforme social e grandi gruppi. Waldman e Sennott (che dirigono Report for America, una fondazione che sostiene piccole redazioni e promuove tirocinio) sottolineano l’attuale paradosso:«in questo momento i giornalisti sono in prima linea per fornire un servizio pubblico profondamente importante. Molti stati sono ufficialmente classificati come servizio di prima necessità».

Paradossalmente, il bisogno di informazione locale che permetta di aggiornarsi su direttive e indicazioni pratiche in tempo di emergenza non è mai stato più concreto. E si registrano addirittura fenomeni inattesi come un picco di ascolti per i vecchi telegiornali nazionali, dinosauri pressoché dimenticati nella frammentazione di social e infosfera, che vivono un inaspettato revival nell’era delle famiglie al confino con molto tempo da perdere ed un ansiogeno bisogno di notizie.

In questo quadro che ingigantisce le anomalie e le fratture sistemiche del sistema, Buzzfeed ha recentemente definito il coronavirus un «extinction level event»– una potenziale ecatombe di media indipendenti che rischiano di essere falcidiati per liberare il campo post-pandemico ad uno scenario stavolta davvero interamente dominato dalla manciata di conglomerati dalle tasche profonde abbastanza per sopravvivere – e, ovviamente, dai colossi social dell’oligopolio digitale.