Huelva è il posto delle fragole. E dei lamponi, delle more, dei mirtilli. L’ultima provincia spagnola prima del Portogallo, l’Andalusia, è un vero concentrato di frutti rossi. Oltre 7000 ettari dedicati all’agricoltura intensiva e biologicamente insostenibile, per una produzione che quest’anno supera i 400 milioni di chili, in larga parte spediti per l’Europa. La luna piena di fine giugno è detta proprio la luna della fragola, perché illumina la raccolta delle ultime fragole mature.

LUNA PIENA, frutti rossi succosi, inizio dell’estate, suona tutto molto poetico e bucolico. Ma raccogliere le fragole è faticoso, molto, da aprile a fine giugno, ore e ore con la schiena piegata in due, per un salario miserrimo. Quindi meglio farlo fare a migranti, magari donne, meglio se ricattabili e senza protezione sindacale. In Spagna, dal 2000, c’è un modo organizzato di gestire i flussi e riflussi di lavoratori agricoli stagionali e stranieri. La Commissione nazionale per l’immigrazione dà la possibilità agli imprenditori di assumerne un certo numero direttamente nei loro paesi di origine. Si parla di migrazione regolata ed etica, per lottare contro quella irregolare. Portare le persone per un lavoro e poi riportarle indietro quando non servono più, assunzioni pianificate per fornire mano d’opera a lavori con condizioni così pessime che la mano d’opera locale non è più disposta a fare. È la finalità produttiva dell’immigrazione, nella realtà si tratta di bieco sfruttamento.

Lo dice il rapporto The vulnerability to exploitation of women migrant workers in agriculture in Eu pubblicato in maggio dal Parlamento europeo. Spiega che «questa cornice legale non ha prevenuto, ma anzi sembra aver fomentato, forme specifiche di sfruttamento, soprattutto di genere». Sì perché gli imprenditori preferiscono assumere donne. Si giustificano dicendo che creano meno conflittualità, meno problemi, sono più facili da gestire e da sottomettere di un gruppo di uomini villici. Ufficialmente dicono di preferire le donne perché, per la loro connaturata delicatezza e per le loro mani dalle dita affusolate, sono più adatte al lavoro di raccolta di frutti esili come le fragole. Non rischiano di sciuparle. Meno conflittualità e delicatezza innata, intramontabili stereotipi maschilisti. Il profilo delle lavoratrici richieste al ministero del lavoro del Marocco dettaglia: donne con non più di 45 anni, magre, sposate, vedove o divorziate, con figli minori di 14 anni nel paese di origine. Figli a casa loro, tanto per essere sicuri che alla fine del raccolto, a fine stagione, queste donne vogliano tornare da dove vengono. Quale madre snaturata abbandonerebbe i propri figli per iniziare una nuova vita in un paese straniero? Quale madre inizierebbe una causa sindacale se deve dar loro da mangiare? Bandi di assunzione con prerogative che si riferiscono alla vita materiale delle persone contrattualizzate non dovrebbero essere legali, perché discriminano e certo non si trovano pubblicati, ma neanche vengono smentiti dal governo spagnolo.

Assaporando le fragole dobbiamo sapere che i contingenti di raccoglitrici stagionali sono quindi principalmente donne del Marocco, quest’anno 17mila, contadine, povere, analfabete, con carichi familiari. Superano legalmente i 14 chilometri di frontiera politica tra il sud della Spagna e il nord del Marocco. Quello che sanno, quando arrivano ai campi di Huelva, è che devono lavorare per sette ore al giorno, sei giorni alla settimana, che per una giornata verranno pagate con 40 euro lordi, che avranno un alloggio gratuito e che ogni ora straordinaria di lavoro verrà retribuita un 75% in più. Ma sono menzogne e non viene data loro alcuna copia del fantomatico contratto.

Così si ritrovano in 8 o 10, in piccole e fetide baracche senza acqua e senza luce, solo materassi buttati per terra. Isolate da un centro abitato, senza alcuna possibilità di allontanarsi, in una surreale situazione di semi cattività. Costrette a lavorare fino allo sfinimento. Costrette a subire abusi, coercizioni, minacce, umiliazioni e aggressioni sessuali. Ma sono donne, migranti, alcune fra loro musulmane, selezionate appositamente per avere meno protezioni, per essere esposte e ricattabili. E così se si ribellano, vengono redarguite e minacciate. Quest’anno in 9 hanno sporto denuncia. Sono riuscite a mettersi in contatto con il Sat, il Sindacato andaluso dei lavoratori, che le ha portate fuori dalla fattoria dove erano trattenute, o meglio sequestrate, e sono state accompagnate alla Guardia civil per formalizzare la denuncia di sfruttamento lavorativo di giorno e schiavizzazione sessuale di notte.

PASTORA FILIGRANA è una avvocata di Siviglia, specializzata in diritti sociali e portavoce del Sat, l’unico sindacato che cerca di organizzare ispezioni sui campi di lavoro di frutti rossi. Lei conosce da anni la situazione di sfruttamento che vivono le lavoratrici agricole, parla di Huelva «come di un buco nero». Individua il problema strutturale nel concetto di produzione, con la trasformazione dell’agricoltura in un processo industriale, focalizzata sul massimizzare gli utili e nello sfruttare le persone e la natura in una struttura sociale patriarcale. Le condizioni e le denunce delle lavoratrici stagionali marocchine a Huelva devono essere analizzate da una prospettiva intersezionale, quella di genere non basta. Perché si incrociano altre categorie di disuguaglianza: il loro status di migranti, il colore della loro pelle, il velo che alcune indossano in quanto musulmane, la barriera linguistica. Solo considerando come colpisce il patriarcato incrociato con il genere in condizioni di subalternità, si comprende la maggiore precarietà sociale e lavorativa di queste donne migranti, provenienti da paesi che, in passato, erano stati colonizzati, ma i cui governi oggi sono complici di pratiche abusive che discriminano.

Sembrava che nessuno sapesse niente, ma è il segreto di Pulcinella. Esiste un rapporto di un gruppo di ricerca dell’Università di Huelva, pubblicato con il logo della provincia andalusa, intitolato «Donne migranti, tratta di esseri umani a scopo di sfruttamento e campi di fragole di Huelva» che avverte che nel peggiore dei casi lo sfruttamento si trasforma in una vera e propria tratta di esseri umani. Ma quella delle fragole è, per la Spagna, una attività competitiva nell’Europa che fa circolare le merci più delle persone. Quindi non sorprende se, anche in piena esplosione del movimento #YoSiTeCreo, nato in solidarietà con la ragazza stuprata a Pamplona, ad eccezione del Sat, associazioni agricole e realtà sindacali si sono preoccupati più che la generalizzazione di abusi e sfruttamento coinvolgesse l’intero settore, danneggiandone prima l’immagine e poi il fatturato, anziché dare un appoggio.

COSÌ È NATA una piattaforma, voluta dalle raccoglitrici stagionali, per alzare la voce e creare solidarietà tra spagnole e migranti. Per sollecitare il femminismo bianco spagnolo a considerare le donne che vengono violentate nei campi di fragole di Huelva, non solo migranti, potenziali badanti o cameriere, ma persone a tutti gli effetti presenti nell’agenda femminista.