Il movimento americano che si oppone a Trump e alle sue politiche razziste, misogine e islamofobe, è nato con la sua elezione e ha mostrato tutto il suo potenziale il giorno immediatamente successivo all’entrata di The Donald alla Casa Bianca, ma non è inesatto dire che un anno di presidenza Trump equivale a un anno di manifestazioni contro di lui.

A incanalare in una militanza attiva il panico che i risultati del voto avevano sparso negli Usa era stata la Women’s March, nata come una manifestazione di base con l’obiettivo di «mandare un messaggio coraggioso alla nuova amministrazione nel suo primo giorno in carica, e al mondo intero che i diritti delle donne sono diritti umani». Il corteo di Washington, insieme a centinaia di altri cortei nel resto degli States e del mondo, ha dato vita alla più grossa e partecipata manifestazione della storia americana: quasi 5 milioni di persone che hanno sfilato al grido di pussy fight back, «le gattine contrattaccano», in reazione a un’affermazione volgare di Trump che spiegava come le donne debbano essere afferrate per le parti intime.

Un’onda di berretti rosa con le orecchie da gatto aveva invaso gli Usa e quest’onda non ha più lasciato le strade americane, perché da un anno negli Usa non è più passata settimana senza vedere cortei e presidi, qualcuno con centinaia di persone, altri con migliaia, altri con centinaia di migliaia, e non solo nelle grandi città. Dopo un anno la Women’s March si è divisa, ma non spaccata, dando vita a March on.

«Sul nostro sito c’è un conto alla rovescia per i giorni che mancano alle elezioni del 2020 – spiega Michelle Auber, attivista newyorchese di March on – Il 21 gennaio 2017 è stato necessario per far sentire che la voce di dissenso è più forte di quella di Trump, ora bisogna costruire. La resistenza da sola non basta, dobbiamo fare progressi attraverso le elezioni, bisogna cominciare con formare candidati forti, sostenerli. Semplicemente bisogna vincere le elezioni, da quelle locali a quella presidenziale del 2020, con candidati in grado di tenere testa ai repubblicani e che siano davvero dalla parte del popolo. E una volta eletti, i nostri rappresentanti non vanno lasciati soli, dobbiamo sorvegliarli e pungolarli. La democrazia non è un diritto che si esercita una volta ogni quattro anni, è un impegno quotidiano e attivo».

March on o meno, questa consapevolezza è diffusa in tutte le anime del movimento. «Prima del 2020 ci sono le elezioni di Midterm di quest’anno – spiega Alex Schwartz, che dopo l’esperienza di Occupy Wall Street ha partecipato alla campagna elettorale nazionale di Bernie Sanders – I nostri rappresentanti sono consapevoli di aver bisogno di voti per essere riconfermati, altrimenti perdono il lavoro. Bene, questa consapevolezza deve arrivare, e sta arrivando, ai cittadini: bisogna fare pressioni sui propri rappresentanti. Essere elettori vuol dire avere un grande potere, e questo potere va esercitato, quotidianamente. In questo momento negli Usa dobbiamo essere tutti attivisti full time». Durante questo 2017 si sono viste spesso dimostrazioni di questa pratica, con sit-in negli uffici dei deputati e dei senatori per portarli ad un’opposizione che altrimenti, probabilmente, sarebbe stata più blanda.

«Per la comunità afroamericana questo è un brutto momento – dice Antwan Reed, attivista di Black Lives Matter – ma guarda cosa è accaduto in Alabama con Roy Moore. É stato il nostro voto, in special modo quello delle donne nere che sono andate compatte a votare per il democratico Doug Jones a spodestare i repubblicani dal trono in uno dei loro maggiori feudi».

In tutti i momenti topici di questo primo anno di presidenza la piazza e il voto che questa piazza ha espresso sono stati una barriera per Trump, caso emblematico il primo «Travelban» che ha portato ai terminal degli aeroporti migliaia di manifestanti, il costituirsi di uffici legali mobili e a New York una folla che ha accompagnato gli attivisti dell’associazione per la difesa dei diritti civili Aclu è riuscita a costringere un giudice di Brooklyn ad aprire il tribunale di sabato sera per inficiare il bando presidenziale. «Tutte le associazioni che difendono le minoranze e i diritti civili hanno visto un incremento di donazioni da record – rileva Yetta Halevi, avvocato per i diritti dei transgender, sotto attacco da parte della Casa Bianca – e per noi ripristinare un livello etico minimo è diventata l’occupazione principale».

Uno degli effetti di questa amministrazione è stato quello di aver portato ad una maggiore coesione le diverse realtà di dissenso, dando vita a solidarietà incrociate: cortei di immigrati hanno sfilato con il movimento Lgbtq, la comunità ebraica continua a fare sit-in davanti il parlamento in sostegno dei Dreamers, americani arrivati bambini negli Usa a seguito di genitori illegali.

Un altro effetto collaterale di questa presidenza è il distacco da Washington da parte dei poteri locali, in polemica con Trump: 16 Stati hanno deciso di restare nel trattato di Parigi, un’unione di procuratori generali guidati da quello di New York sta combattendo per mantenere la Net neutrality, i sindaci e i governatori liberal difendono i propri territori. Bill De Blasio, sindaco di New York, non è l’unico che indice manifestazioni anti Trump.