Nel primo pomeriggio Montecitorio sembra un autobus all’ora di punta. O sembra il senato del 44 avanti Cristo? Ma qui siamo alla Camera, e il democratico cristiano Enrico Letta non certo è il democratico dittatore Cesare, e non ci sarà nessun Bruto a pugnalarlo. Ma la domanda che circola nei capannelli non è meno cruenta: «Si dimette o tenta la prova di forza in parlamento»? A mezza mattina il premier è Milano, all’inaugurazione della Borsa internazionale del turismo. Pallido, viso tirato, felpato come sempre, ma per niente dimissionario: «Nelle prossime ore presenterò una mia proposta di patto di coalizione fra i partiti che sostengono il governo, sono convinto che convincerà tutti i partiti che lo sostengono». Più tardi si viene a sapere che prima di partire ha visto il presidente Napolitano – anche lui in partenza per il Portogallo – che la sera prima ha cenato con Matteo Renzi.

Nel pomeriggio, a un convegno su Enrico Berlinguer, Eugenio Scalfari, fondatore di Repubblica, svela un dettaglio di questo incontro: il capo dello stato avrebbe ascoltato, preso «attenta nota dei desideri» di Renzi e annunciato: «Poi consulterò le altre parti e prenderò la decisione più opportuna per il bene del Paese». Nuove consultazioni, quindi. Informali, di nuovo, per un capo dello stato accusato – dal Corriere della sera – di precostituire un po’ troppo le sorti dei governo sin dall’era di Monti. L’incontro con Letta invece è rapido: la certificazione che il piano di rilancio del governo c’è e non si chiamerà più «Impegno 2014» ma «Impegno Italia». Si dimette? Macché, anzi, punta a un governo di legislatura.

Ma in mattinata il destino di Letta sembra compiersi, presagio dopo presagio, mossa dopo mossa. Alle 8 e mezza Renzi incontra i suoi parlamentari e fotografa la situazione: il governo ha «la batteria è scarica. Decidiamo se va ricaricata o cambiata»; le riforme sono irrinunciabili; e – naturalmente – il Pd è leale. Alla minoranza che chiede modifiche alla legge elettorale replica che «l’accordo non può essere modificato in modo unilaterale». Ma la domanda di fondo, quella dura, esplicita è: «Il governo così com’è aiuta le riforme o no?». È una domanda retorica. La maggioranza dei gruppi ormai punta al Renzi I. E non è per la legge elettorale che il Transatlantico brulica. L’Italicum non è all’ordine del giorno, almeno non di oggi. Alle 14 (altro segnale) è che l’esame della legge, previsto per il pomeriggio e considerato fino alla sera prima improcrastinabile, slitta a martedì. Una richiesta avanzata da Emanuele Fiano (Pd) a nome di tutte le forze politiche «per accogliere le sollecitazioni di tutti» per arrivare in aula « con una conoscenza più approfondita di un provvedimento importantissimo». Un argomento buono per ogni occasione, e fin qui negata alle opposizioni.
La legge slitta, il lavoro della camera va avanti distrattamente, l’attesa di un altro segnale si consuma alla buvette. Dove circola ancora quella domanda: «Si dimette o no?». Dario Franceschini, l’avanguardia ispirata di tutti i cambi di maggioranza interni al Pd, dall’epoca di Veltroni ai nostri giorni passando per Bersani, sfreccia in Transatlantico senza dettagliare la situazione. L’appuntamento ufficiale è per giovedì 13: Renzi ha anticipato di una settimana la direzione sul rapporto Pd-governo. Ma il franceschiniano Antonello Giacomelli ragiona: «Spero che Letta e Renzi si parlino prima. Non vorranno farlo in diretta streaming?».

Nel Pd in molti giurano che non c’è altra maniera di far ripartire il governo se non con la famigerata «staffetta» a Palazzo Chigi. Proprio quella che Renzi «questo linguaggio da prima repubblica mi fa venire le bolle», quella che «ma chi ce lo fa fare». Renzi avrebbe «cambiato verso» e opinione. Ma chi si incarica di spiegarlo a Letta. «Ma lo avrà un amico, no?», sbotta una giovane turca.

Certo, di ex amici ne ha tanti . Alle cinque della sera è Andrea Romano, una delle tante correntine monocellulari di Scelta civica (diverse, ma schierate come un sol uomo accanto a Renzi) a dare il segnale: «Auspico che Letta mostri quella generosità che ha sempre dimostrato, favorendo l’apertura di questa nuova fase anche con la messa a disposizione del proprio ruolo. Sono sicuro che lui per primo comprenda l’esigenza di voltare pagina davvero, aprendo una nuova fase della storia politica di questo paese e arrivando rapidamente ad un nuovo governo che sia guidato anche da un’altra personalità». È ufficiale: Enrico Letta non ha più la sua maggioranza. Poco dopo Alfano aggiunge sale alla ferita del suo premier: «Ho sentito Letta e gli ho detto che noi siamo pronti ad andare avanti ma anche che questa stessa disponibilità deve ottenerla dal Pd». «Aspettiamo di ascoltare ’il progetto che convincerà tutti», dice Matteo Orfini. Ma nel Pd ormai tutti, tranne i fedelissimi di Letta, credono che il primo governo delle strette intese sia archiviato. E puntano, per il secondo, a un allargamento della maggioranza. Magari a Sel. Per la quale però la presenza di Alfano sarebbe comunque indigeribile. «Noi al governo con i diversamente berlusconiani? Fantascienza», liquida Gennaro Migliore, il vendoliano più vicino a Renzi.
Oggi Letta terrà una conferenza stampa, spiegano i suoi, «per parlare al paese. Vuole che tutto avvenga alla luce del sole». I sondaggi danno la staffetta al 20 per cento di gradimento del paese. Sarebbe un argomento dirimente per Renzi di qualche settimana fa, quando Renzi accarezzava l’idea del voto. Ma con la staffetta il voto si allontana al 2018.