La nuova Commissione di Ursula von der Leyen (Ppe), si insedia il primo dicembre, con un mese di ritardo sulla tabella di marcia (era già successo di peggio, con la Commissione Barroso due, insediata a febbraio 2010).

Il voto di ieri all’Europarlamento, concluso con un’ampia vittoria, cancella il processo in illegittimità che era stato fatto alla nuova presidente, una donna per la prima volta, dopo il risultato risicato (per soli 9 voti) al voto sul suo nome il 16 luglio scorso (dove era passata grazie ai Cinque Stelle e al Pis polacco): difatti, al suo posto ambiva il suo connazionale Manfred Weber, Spitzenkandidat del Ppe, che era arrivato in testa alle elezioni europee. Ma poi il sistema Spitzen era stato impallinato da Macron e la scelta era caduta su una outsider.

I paesi membri non le hanno lasciato margini di manovra nella scelta dei commissari, ognuno ha presentato un solo nome. Ci sono state tre bocciature nelle audizioni dell’Europarlamento o preventive per conflitti di interesse (la francese Sylvie Goulard, l’ungherese Lazlo Trocsanyi e la rumena Rovana Plum), di qui il ritardo nell’insediamento. La nuova Commissione dovrà subito gestire la Brexit, l’ultima data stabilita è il 31 gennaio 2020. E calmare le tensioni con l’est Europa. L’architettura della nuova Commissione è calibrata con il bilancino. Non è paritaria come avrebbe voluto von der Leyer, ma è già meglio del passato, con 12 donne e 15 uomini.

È la prima a non avere un commissario britannico da quando la Gran Bretagna è nella Ue. Politicamente, dopo i soprassalti degli ultimi mesi, è più a destra della prima stesura: ai 9 commissari del Ppe vanno aggiunti altri due e mezzo «indipendenti» (su 4), l’ungherese Oliver Varhelyi, vicino a Viktor Orban, il lituano Virginijus Sinkevicius, appartenente a un partito agrario e il francese Thierry Breton, manager di alto bordo scelto da Macron che è stato ministro con Chirac. S&D ha 9 commissari, Renew Europe (Re, liberali), 3. Von der Leyen dovrà fare i conti con tre «pilastri», i vice-presidenti con ampi poteri, tutti già presenti nella Commissione Juncker, tutti e tre avevano l’aspirazione a diventare presidenti. Frans Timmermans (S&D), ex ministro degli Esteri olandese, bestia nera di ungheresi e polacchi (per l’insistenza sul rispetto dello stato di diritto), dovrà mettere in opera il principale impegno della nuova Commissione: il «green new deal» con l’impegno di portare la Ue alle neutralità Co2 nel 2050.

Margrethe Vestager (Re), ex ministro delle Finanze danese, che allarga il portafoglio aggiungendo alla Concorrenza il digitale, con l’ambizione di adattare la Ue al nuovo mondo. Vestager si è fatta un nome tassando Apple (13 miliardi multa) e Google (3 multe, per 8 miliardi) e dovrà continuare su questa strada. A sorpresa, von der Leyen ha nominato vice-presidente anche il lettone Valdis Dombrovskis (Ppe), ex primo ministro, noto per aver tenuto la linea dura sul Patto di stabilità (Italia 2018). Sarà alla testa dell’Economia, all’ombra del quale opera l’italiano Paolo Gentiloni, a cui è affidata la gestione dei deficit pubblici (per attenuare le furie del lettone, come aveva fatto Pierre Moscovici nella Commissione Juncker), l’armonizzazione fiscale, la futura carbon tax e il sistema di copertura europea per la disoccupazione. Alla Pesc (politica estera), a Federica Mogherini succede lo spagnolo Josep Borrell, già presidente dell’Europarlamento dal 2004 al 2007.

La Pesc resta un punto ancora debole della Ue, la politica estera comune è tutta da costruire anche se Mogherini aveva coordinato con un certo successo il procedimento di sanzioni alla Russia (per la Crimea e il Donbass) e i negoziati sul nucleare iraniano. Il delicato tema dell’immigrazione, che resta in ampia misura una prerogativa nazionale, è affidato al greco Margaritis Schinas (Ppe), ex capo dei portavoce di Juncker.

Grazie alla pressione dei socialisti, ha dovuto cambiare il nome del suo portafoglio, da «protezione» a «promozione del modo di vita europeo», perché la prima versione era un’eccessiva concessione all’estrema destra. Sulle spalle dell’irlandese Phil Hogan (Ppe), al Commercio, ci sono i trattati internazionali, sempre più contestati (in particolare il Ceta, già passato e Mercosur, in fieri).
Il francese Breton, che sarà sotto la tutela di Vestager, ha ottenuto un portafoglio allargato: mercato interno, politica industriale, spazio, digitale, dovrà dar vita al Fondo europeo per la Difesa.