Sigalit Landau è un’artista israeliana. Un giorno decide di mettere a bagno un vestito nero tradizionale chassidico nel Mar Morto, il mare più salato del mondo (ha una salinità pari a otto volte quella degli oceani). Lo lascia lì due anni a mollo ancorato a terra con delle funi. È l’abito indossato dal personaggio di Leah nell’opera teatrale The Dybbuk, scritta dal drammaturgo S. Ansky nei primi del Novecento. Nella rappresentazione una giovane sposa viene posseduta da uno spirito maligno (l’anima dannata del titolo) e costretta a subire un processo di purificazione davanti a una corte rabbinica. Simbolicamente la trasformazione dal nero al bianco, tramite la solidificazione salina, traduce l’esorcismo dalla follia al candore, dalla morte alla vita: The salt bride. Un relitto, un cadavere svuotato, un cencio senza valore. L’artista lo tira fuori dall’acqua e lo ritrova bianco, cristalli di sale rappresi in una statua sacrificale. Trasformazione sorprendente e dolorosa, carica di vite, storie, significati possibili. Una idea semplice, così limpida da sembrare banale, cambia l’uso di un oggetto quotidiano in essenza, in dramma, in stalattite vibrante. Un’azione annichilente, tormentata: performance, situazionismo, testamento biblico.

Vengo da lontano. Stanca approdo. Vengo aiutata, lavata, vestita. Un abito bello, scuro, di una stoffa spessa che cade a piombo fino a terra. Non sono alta, mi arriva fino ai piedi. Paio una vedova. Triste come sensazione. Mi pesano addosso le differenze tra me e gli altri, i dogmi applicati a tutto, il valore della religione sulla vita di tutti i giorni. Qui non esiste la libertà. Ma nemmeno dal posto dove vengo. Tutti si guardano con sospetto, tutti sono sul chi vive. Conosco questa attitudine, la possiedo. Non mi è difficile adeguarmi alle regole, sono una persona mite. Per questo lo accetto in matrimonio. Non amandolo. Per quieto vivere. Per gentilezza. Per non usare maledizione negandomi. Mi sembra tutto irreale. Compreso il momento delle nozze, che mi trasforma in un attimo da profuga a moglie. Passano gli anni. Compio il mio dovere come uno scolare modello. Cucino, pulisco, stiro e metto al mondo eredi. Non ho nulla fuori posto, non un capello, non uno sguardo, non una sgualcitura. Sono inadeguata solo dentro. Mi ci sento. Delle volte non riesco a respirare. Sono in una bolla tutta mia. Guardo tutto da lì, come un sommozzatore a cui somministrano ossigeno con la grazia di un kapò. Mi fossilizzo nella felicità altrui, tanta è la gratitudine di essere stata salvata. Ma non posso dirmi felice. Non posso.

Non riesco a mettere vicine queste due brevi parole, una negazione e la prima persona di un verbo. È più forte di me, mi è impossibile. Eppure l’aggettivo riesco a coniugarlo. Impossibile impossibile impossibile. Il significato è il medesimo ma non mi costa fatica, non si incaglia nella gola come un bolo mal digerito che deve essere sputato fuori a rischio della vita. Sono una donna. Sono una madre. Sono una moglie. Ma non sono niente. Non sono tutto. Non sono io. Vivo sprofondata sotto l’acqua più salina del mondo e muoio così, bianca sposa salata da leccare tutta e bruciarsi la lingua. Una vedova che col tempo si trasforma in una sposa. Quale fatale destino il mio. Non sono una sirena, sarei stata una sposa, sono sale bianco.

fabianasargentini@alice.it

Dalla prossima rubrica, FemmineFolli anticipa l’uscita al mercoledì. Appuntamento al 19 ottobre