Indro Montanelli è stato quel che è stato, fascista, razzista, machista, compratore di una sposa bambina eritrea e va benissimo se oggi la sua statua viene cosparsa di vernice, così come va bene che negli Usa o in Gran Bretagna siano abbattute statue di mercanti di schiavi. Le statue, così come sono state messe, si possono anche togliere o dileggiare quando ciò che rappresentano non è più sopportabile. Però sarebbe un errore fermarsi alla condanna di Montanelli perché è il simbolico di qualcosa che l’Italia non ha mai voluto riconoscere fino in fondo, la propria vergognosa storia colonialista.
Indro Montanelli non era un’eccezione, ma uno dei tanti italiani che Angelo Del Boca nel suo Italiani, brava gente? (Neri Pozza) descrive come «Uomini comuni, non particolarmente fanatici. Uomini che hanno agito per spirito di disciplina, per emulazione, o perché persuasi di essere nel giusto eliminando coloro che ritenevano barbari o subumani». Insomma, la banalità del male. Quando partirono nel 1935 per conquistare l’Etiopia, in sette mesi di guerra quegli uomini comuni che obbedivano a Mussolini sterminarono 250mila persone. Quando, come documenta Simone Belladonna in Gas in Etiopia. I crimini rimossi dell’Italia coloniale (Neri Pozza), fu ordinato loro di sganciare sul popolo etiopico 1020 bombe da 500 chili caricate a iprite (gas proibito dalle convenzioni internazionali), sui somali 95 bombe a iprite e 271 a fosgene lo fecero.

LO STORICO Matteo Dominioni ne Lo sfascio dell’Impero: gli italiani in Etiopia 1936-41 (Laterza) entra nei dettagli della strage di Zeret. È il 30 marzo 1939 quando l’aviazione italiana individua una colonna di «ribelli» composta per la maggior parte da feriti, anziani, bambini, donne che, incalzati, si rifugiano in una grotta. Dopo averla assediata, i militari italiani decidono di calarvi alcuni bidoncini di iprite per, come scrive nel suo diario il sergente maggiore Boaglio: «Impedire così a eventuali fuggitivi di cavarsela impunemente…». L’iprite, chiamato anche gas mostarda per il suo odore simile alla senape, è a base di cloro e zolfo, agisce sulla pelle anche attraverso i vestiti aprendo piaghe di carne viva. Se inalato distrugge l’apparato respiratorio in pochi minuti.
L’Italia ha così poco voluto fare i conti con queste verità che Del Boca, quando nel 1965 scrisse per primo dell’uso dei gas tossici, fu sottoposto a una campagna diffamatoria. Si dovette arrivare al 1995, quando il governo Dini aprì gli archivi, per dimostrare che aveva ragione, ma nemmeno dopo di allora si è voluto avviare un processo di verità su chi siamo stati e che cosa abbiamo fatto davvero nelle colonie, ovvero non brava gente, ma massacratori.

ANZI, siamo stati ben attenti a sotterrare la verità nascondendo pellicole che parlavano di quegli eventi. Il leone del deserto, film storico con Anthony Queen e Irene Papas girato nel 1981 da Mustafa Akkad e che narra la resistenza libica contro l’invasione italiana, è stato visto in tutto il mondo, ma mai distribuito in Italia. I diritti di Fascist Legacy, documentario prodotto dalla BBC nel 1989 sui crimini fascisti, furono comprati dalla Rai per impedirne la trasmissione.
Di fronte a tutto ciò, e non è tutto, cosa volete che sia un po’ di vernice su una statua? Solletico. Il lavoro da fare per squarciare il velo dell’ipocrisia e dell’oblio non manca e bisognerebbe davvero iniziarlo non solo con saggi, ma anche con narrazioni visive e letterarie. Se poi si vogliono altri sepolcri da additare, sempre Del Boca in La guerra d’Etiopia (Longanesi) ricorda i nomi dei capi militari di quelle «eroiche» imprese, ovvero il maresciallo Pietro Badoglio e il generale Rodolfo Graziani. Il primo è morto di vecchiaia nel suo letto, carico di onori. Il secondo fu processato e condannato, ma non per le stragi in Etiopia e in Libia. Oggi la sua tomba e il suo museo a Filettino sono meta di pellegrinaggio

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