Disoccupazione alle stelle, precarizzazione estrema, disinvestimenti nella scuola e nella ricerca, e ora classi dirigenti esultanti per l’alto numero di giovani che abbandonano il Paese.

C’è in realtà del metodo in questa follia, ed ha molto a che vedere con la collocazione subordinata dell’Italia in una divisione internazionale del lavoro sempre più gerarchizzata.

Se i profitti hanno preso la via della rendita e della speculazione, tassate in maniera vergognosamente bassa, il lavoro deve rispondere alla stagionalità e all’intercambiabilità imposte dai settori «sopravvissuti» (il turismo, ad esempio). L’industria o delocalizza o ricatta intere comunità chiedendo, in cambio della salvaguardia dell’occupazione, la rimozione dei diritti o la facoltà di avvelenare.

Gli studi recenti di Mariana Mazzuccato su Stati uniti e Gran Bretagna hanno confermato il dato esperienziale della nostra storia di Stato unificato, e cioè che non c’è sviluppo senza un forte ruolo dello Stato nei settori strategici.

Eppure le classi dirigenti italiane se ne sono pervicacemente scordate. Nel campo dell’energia elettrica come in quello dei trasporti locali e nazionali, degli acquedotti e delle poste, della rete telefonica e della gestione del ciclo dei rifiuti, nella seconda repubblica si è materializzata la spoon river (bipartisan) del settore pubblico italiano. Per non parlare di quello bancario, affidato nelle mani di speculatori che lo hanno portato sulle soglie del collasso, gestendolo con criteri anti-economici che avrebbero provocato, se applicati a qualsiasi ente statale, fiumi di parole indignate nel sistema dei mass-media. E che ora, c’è da scommetterci, sarà «salvato», ma non «nazionalizzato»: denaro pubblico sarà sì versato in un pozzo senza fondo a spese del contribuente, senza però cogliere l’opportunità per condizionare la politica creditizia a fini di pubblica utilità.

In contrasto con i profitti esorbitanti appannaggio delle poche oligarchie che si sono spartite la torta delle privatizzazioni, la popolazione è stata ripagata soltanto in termini di disservizi e di aumentati costi delle bollette, e a farne le spese sono state soprattutto le fasce più deboli.

Il caso delle rete ferroviaria è da questo punto di vista emblematico: mentre una classe agiata e cosmopolita «sfreccia» sui treni ad alta velocità attraverso le capitali, il popolo delle periferie arranca su trasporti e linee da paese sottosviluppato, ampliando a dismisura i tempi della già dura giornata lavorativa.

Considerato che il fenomeno riguarda la collocazione dell’Italia nella suddivisione internazionale del lavoro, parlarne in chiave soltanto nazionale sarebbe senz’altro riduttivo. L’intera storia dell’integrazione europea degli ultimi vent’anni è la storia della distruzione degli apparati produttivi delle periferie mediterranee a vantaggio dei centri metropolitani dell’accumulazione, corrispondenti grosso modo con l’ex area del marco.

In questa costruzione, le ondate di privatizzazioni imposte agli Stati del sud per entrare nell’euro prima, e per rimanerci poi a partire dalla grande crisi del 2008, hanno giocato un ruolo fondamentale.

Da un duplice punto di vista: da una parte si sono costruiti forzatamente sbocchi per i capitali metropolitani eccedenti – si pensi al caso lampante della Grecia, costretta a privatizzare il proprio sistema aeroportuale poi finito in mano di gruppi finanziari tedeschi; dall’altra si è distrutto la principale leva di sviluppo di economie fortemente concorrenziali come quella italiana.

Avrebbe poco senso, oggi, il «panettone di Stato». Tuttavia l’individuazione di settori strategici adeguati alle esigenze di sviluppo del XXI secolo, e il rilancio in essi del ruolo pubblico, appare sempre più improcrastinabile, in corrispondenza col crollo delle illusioni ideologiche neoliberiste.

Pensare di poter far questo all’interno del panorama europeo attuale sarebbe illusorio. Perché le regole non lo permettono. E perché la volontà politica di chi le leve politiche continentali le maneggia va in tutt’altra direzione, cioè in quella della inesorabile subordinazione dei sistemi produttivi periferici.

Una paziente opera di ricostruzione indipendente delle economie periferiche non andrebbe necessariamente a scapito del rilancio della prospettiva dell’integrazione continentale. Ciò che è inconciliabile con la prospettiva dell’integrazione è l’attuale assetto gerarchico delle istituzioni e della produzione europee. Mentre un conglomerato di apparati economici nazionali risanati e resi nuovamente competitivi potrebbe poi trovare la forza e la volontà per cooperare in una prospettiva di integrazione produttiva e poi politica finalmente democratica.

Il rilancio della domanda interna attraverso un’adeguata politica delle infrastrutture ed un salario minimo garantito, un massiccio investimento nella scuola e nella ricerca pubblica, e non ultimo la pacificazione dell’area mediterranea costituirebbero, di questo rinnovato disegno interventista, il naturale e necessario corollario; andando così a costituire una solida ipotesi programmatica per le forze politiche nuove chiamate a dar risposta alle mobilitazioni popolari di questa stagione.