«Ar resplans la flors enversa», «qui risplende il fiore inverso», scrisse tanti secoli fa il trovatore provenzale Raimbaut d’Aurenga, conte d’Orange. Che significava? Voleva dire che la parola poetica rovescia il mondo, fa nascere fiori che hanno la corolla in basso, e le radici in cielo. È scardinare l’ordine costituito del discorso, scuotendolo, penetrarne pieghe e angoli inattesi, almeno per il tempo che le parole voleranno nell’aria con assertiva determinazione ritmica. Un mare di studi antropologici, letterari, musicologici hanno fatto il punto su un dato di immediata evidenza: la poesia, il «fiore inverso» a un certo punto ha separato i propri destini dalla musica.

Era quella poesia che non cercava «accompagnamento» dalle note, ma nasceva essa stessa da un coniugio necessario, stringente con la musica, pena la non efficacia della poesia stessa. Ma oggi la poesia, come scrive il protagonista principale di questo articolo, Lello Voce (nomen omen: nel nome un destino), ha un ben triste sorte sociale: Il suo scegliere di diventare muta, il suo farsene sin un vanto per qualche secolo, è stato per la poesia una sorta di suicidio, la scelta di un eremitaggio radicale dalla Polis che l’estetica hegeliana, nominando il romanzo nuova epica borghese, di fatto, sancisce, condannandola al silenzio e rinchiudendo il suo testo scritto nel pollaio di una minoranza sempre più malinconica e esclusa».

Unica eccezione: il triste destino del poeta che si fa «personaggio pubblico» , corpo e volto che dovrebbe invogliare alla poesia, e guida invece al consueto voyerurismo. E allora? E allora si tratta di fare uno scarto laterale, spiazzante, che contenga in sé ragioni dell’assoluta contemporaneità, e abissi di lontananza storica, quando la poesia era «detta» in ritmo, o non era. Lello Voce, considerato da Nanni Balestrini il più importante poeta italiano contemporaneo, da molti anni lavora con la spoken music, la poesia che è anche musica. È un approccio che ribalta le convenzioni letterarie e musicali assieme, che manda a quel paese la scelta di «puntare tutto sul verso piuttosto che sul ritmo, sul battere ritmato del cuore e sul soffio cadenzato del respiro», rinunciando «alla sua concretezza materica, per consegnarsi mani e piedi alla fruizione silenziosa». Chi ascolterà invece Il Fiore Inverso, libro con testi, e saggi e cd pubblicato da Squilibri, con l’apporto, anche, dei disegni di Claudio Calia, si troverà immerso in un’atmosfera tesa, pressante, fisica, quasi, in cui la parole di Lello Voce danzano ritmicamente cercando e trovando altra e complementare materia palpitante ritmica e armonica nelle faglie elettroniche di Frank Nemola (che co-firma il libro), e nei contributi avvincenti di diversi altri musicisti coinvolti. A partire dalla tromba del jazzista ubiquo e gentile come i poeti trovatori che sin dal ’99 collabora con Voce: Paolo Fresu.

C’è anche la fisarmonica di Simone Zanchini, la chitarra elettrica di Dario Comuzzi, il violoncello barocco di Eva Sola, il rap spietato di Kenzo, il violoncello classico di Irene Pardi, la viola di Luca Sanzò. Scrive così Lello Voce: «Siamo in credito di vita siamo in attesa che sia finita questa pena infinita che nasca la radice che traligna che esige che ora sia esatta l’ora che fa tornare i conti siamo giunti sin qua solo per mostrarvi i numeri la lista e tutta l’evidente moderazione che c’è nel comprendere come ormai l’unica soluzione non sia un pranzo di gala ma piuttosto tutt’un’altra rivoluzione». Lo dicevano i poeti del dodicesimo secolo, che la poesia è un «fiore inverso». E piuttosto indomabile.