La crisi europea e italiana, in particolare, è legata alla fine di un certo paradigma economico e all’architettura della moneta unica europea. La pubblicistica associa la crisi all’eccesso di spesa pubblica, diversamente declinata, ma il vincolo strutturale europeo risiede negli squilibri della bilancia dei pagamenti. Restando all’Italia, è il caso di ricordare che la spesa pubblica italiana, al netto della spesa per il servizio del debito, rimane tra le più contenute dei paesi europei, mentre l’avanzo primario (vedi De Cecco su il manifesto del 15 gennaio), genera una contrazione della domanda, trasferendo l’onere dell’aggiustamento fiscale alle nuove generazioni.

In questo contesto qualsiasi revisione, razionalizzazione, riorganizzazione, ricomposizione, riqualificazione della spesa pubblica, dovrebbe concentrarsi sulla coerenza di bilancio, dei servizi e delle attività svolte dal settore pubblico, con i mutamenti della domanda e dei bisogni della collettività. La finanza pubblica è, quindi, qualcosa di più del pareggio di bilancio. Infatti, nei paesi europei la spending review si configura come un moderno «strumento di programmazione delle finanze pubbliche», volto a fornire una metodologia sistematica per migliorare sia il processo di decisione delle priorità e di allocazione delle risorse, sia la performance delle amministrazioni pubbliche in termini di qualità ed efficacia dei servizi offerti. Si tratta di rimettere al centro della discussione il governo della finanza pubblica come strumento di politica economica.

Un metodo trascurato prima da Tremonti, poi da Monti e ora da Letta. Infatti, il governo della spesa pubblica presuppone il controllo e la verifica dell’efficacia della spesa pubblica.

Se analizziamo il programma spending review del governo Monti, prevalgono le misure di contenimento (non di governo) della spesa pubblica, come se la revisione delle entrate statali fosse meno importante. L’ultima Legge di Stabilità (2014) contabilizza non meno di 23 miliardi di euro di risparmi tra il 2015 e il 2017, direttamente proporzionali all’eliminazione delle sovrapposizioni di attività all’interno della pubblica amministrazione; alla razionalizzazione dell’attività d’acquisto di beni e servizi; all’uso efficiente degli immobili pubblici; alla riduzione dei salari dei dipendenti pubblici; al blocco parziale del turn-over; alla contrazione della spesa in conto capitale. Da un lato abbiamo il controllo della spesa pubblica, dall’altro il taglio della spesa pubblica. Né l’una e né l’altra sono parenti del governo della formazione della spesa pubblica.

Il recente programma di lavoro del Commissario straordinario per la revisione della spesa pubblica, ricalca il lavoro del precedente governo. Solo alla fine del programma troviamo qualcosa che interessa il governo della formazione della spesa pubblica: «L’istituzionalizzazione della revisione della spesa» al fine di integrare la preparazione del bilancio dello Stato.
Il Commissario non ha l’intenzione di procedere alla revisione della spesa pre-determinata da obiettivi quantitativi, i così detti 32 miliardi di euro annunciati. Sottolinea la necessità di un aggiornamento del programma presso il Comitato interministeriale; di coinvolgere il parlamento e le commissioni competenti, assieme alle parti sociali.

La cornice istituzionale non è irrilevante, ma la forza programmatica del bilancio pubblico necessità di ulteriori e raffinati strumenti, tra cui la capacità di valutare i moltiplicatori delle singole poste in entrata e in uscita. Si tratta di osservare l’inciso e il presupposto dell’imposta, valutando l’efficacia in termini di distribuzione del reddito, di organizzazione della macchina pubblica e dell’impatto sul sistema economico in termini di capacità di produrre reddito. Quindi, l’efficacia o meno della spesa pubblica non dipende solo dalla sua dimensione, aspetto comunque non trascurabile, ma anche dalla composizione delle entrate e delle spese.

Non dobbiamo mai dimenticare che la spesa pubblica immette sul mercato un flusso di moneta capace di condizionare la domanda, la produzione di beni e servizi, così come il livello generale dei prezzi. Questa spesa trova origine nelle entrate pubbliche, che “figurativamente” sottraggono liquidità al settore privato e riducono la capacità di spesa delle famiglie e delle imprese attraverso le tasse, ma l’insieme delle entrate e delle spese genera una distribuzione del reddito molto più efficace di quella realizzata dal mercato, in ragione dei fallimenti del mercato. Ecco perché occorre intervenire anche sulla gestione dell’attività, della produzione e dell’organizzazione della spesa pubblica.

I metodi della programmazione del bilancio hanno visto lo sviluppo di diverse metodologie («costi-benefici», «bilancio a base zero», ecc.), ma sempre con la finalità di governare la formazione spesa pubblica, superando la logica del risparmio più o meno necessario. Solo in questo modo la scelta della composizione e della formazione della spesa diventa politica economica pubblica.