Se c’è stato un modello per la città europea che più di altri ha fatto riflettere sull’importanza dello spazio pubblico per le sue qualità di generare coesione sociale e urbanità è stato quello sperimentato a Barcellona con Oriol Bohigas (1925-2021), scomparso all’età di novantacinque anni dopo una intensa carriera di architetto e urbanista iniziata negli anni Cinquanta insieme a Josep Martorell (1925-2017), al quale si aggiungerà, un decennio dopo, lo statunitense David Mackay (1933-2014).

Nei quattro anni, dal 1980 al 1984, nel quale sovrintende l’assessorato all’urbanistica della città catalana, Bohigas dimostra come attraverso interventi minimali ma diffusi è possibile ordinare, ridisegnandone con sensibilità alcune sue parti, il tessuto storico e la periferia. Furono una novità quella serie di progetti costruiti come anticipazione della «città olimpica» che nel 1992 vide Barcellona cambiare il suo volto con il recupero del suo esteso waterfront che dal porto alla spiaggia, a ridosso dell’area industriale di Barceloneta, si connetterà con l’Eixample di Cerdà, la parte centrale della città.

Da allora il processo di trasformazione urbanistica della metropoli catalana proseguirà con ritmi crescenti che solo in parte la crisi finanziaria del 2008 rallentò, assumendo le forme ciniche della gentrificazione più radicale che oggi conosciamo e così ben descritte nelle pagine dell’antropologo Manuel Delgado.

Resta indubbio, comunque, che è da allora che Bohigas assume una notorietà che lo renderà un architetto famoso e premiato: nel 1999 dal Royal Institute of British Architects. Tuttavia i riconoscimenti internazionali che riceverà, e di conseguenza con lui lo studio MBM Arquitects, determinati da una quantità di incarichi ricevuti e concorsi svolti in diversi paesi europei (Francia, Germania, Regno Unito, Olanda), non esauriscono la personalità dell’architetto catalano. Occorre, infatti, ricordare la sua attività di studioso della storia del modernismo catalano (Arquitectura modernista, 1968, Modernidad en la arquitectura del la España repubblicana, 1998)), e di teorico e docente universitario alla Scuola Tecnica Superiore di Architettura di Barcellona, (direttore dal 1977 al 1980).

Ebbe una pluralità di interessi culturali che gli consentiranno l’elaborazione di un metodo progettuale ben fondato sulla padronanza della storia, quindi, su un supporto teorico rigoroso, così da inserirlo tra la schiera dei protagonisti dell’«altra modernità», nel significato che ne diede Kenneth Frampton, come si può verificare già con l’edificio residenziale di Avenida Meridiana (1960-64) a Barcellona. Un’opera che con le altre realizzate negli anni successivi permise di confermare l’importante del contributo catalano al «regionalismo critico» teorizzato dal critico statunitense, al quale, trent’anni dopo, si deve la prima monografia dello studio MBM Arquitects (Bohigas, Martorell, Mackay, 30 anni di architettura 1954-1984, 1984).

Intenso il rapporto che Bohigas ebbe con l’Italia alla quale lo legarono sincere amicizie e convergenze ideali, ad esempio con Vittorio Gregotti e Pierluigi Nicolin, che nelle loro rispettive riviste, Casabella e Lotus, pubblicarono puntualmente i suoi scritti sull’architettura contemporanea. È soprattutto, però, come progettista che sarà costante la sua presenza nel nostro paese avendo ricevuto da diverse amministrazioni pubbliche incarichi per redigere piani regolatori (Salerno, 1994), riqualificare piazze (Siena, 1988), elaborare masterplan di waterfront (Falconara marittima, Mola di Bari, 2003), aree interessate da stazioni ferroviarie (Parma, 2001) e industriali (Pescara, 2000).

Quando nel 1997 l’incontrammo a San Marino in occasione di una sua memorabile mostra gli chiedemmo cosa ne pensasse dell’architettura contemporanea. Ci rispose che «in questo fine secolo il mondo dell’architettura è condizionato dal neocapitalismo. Il mercantilismo è terribile e la crisi dell’architettura ruota intorno agli stessi problemi del movimento moderno». Purtroppo proseguì «gli studenti vogliono sapere dei dettagli costruttivi dell’edificio di Isozaki o della torre di Gehry, ma non si interessano ai problemi sociali dell’architettura poiché il capitalismo non è interessato a parlarne».

Quasi venticinque anni dopo ruotiamo intorno agli stessi problemi, ma l’eredità culturale che ci lascia Bohigas è lì a dimostrare come con metodo e impegno si può non cadere in ciò che il suo amico Frampton definì il «manierismo inoperante», anche se oggi dominante.