La speranza è la prima a nascere e l’ultima a morire. Affonda le sue radici nel respiro del corpo e detta i tempi, i ritmi e il movimento della nostra presenza nel mondo. La sua totale assenza, la forma più radicale di anoressia esistenziale, non è compatibile con la vita: se si smette di sperare si muore.

Guida del desiderio, la speranza anima e orienta lo spazio dell’attesa. Legata al senso di mancanza l’attesa non è passiva: tende verso ciò che manca, fa aprire il soggetto, spingendolo verso l’altro, lavorandolo dal suo interno. La speranza imprime all’attesa una direzione, che diventa presentimento, immaginazione, prima ancora che la cosa desiderata abbia assunto una forma riconoscibile e definita.

Alla speranza non si oppone la disperazione. Quest’ultima è il dolore lacerante che il vuoto di speranza causa. Anche quando sfocia nel suicidio, la disperazione cerca, invoca la speranza, è la sua realizzazione in negativo. L’opposto, l’antagonista della speranza è la consolazione: la chiusura dell’essere, il falso sentimento di stabilità creato dalla contrazione della materia psicocorporea che si nega all’esperienza.

La speranza non è mai improvvida, infondata. Porta la percezione soggettiva della vita a intuire l’incontro tra le spinte pulsionali interne e la realtà esterna, oggettiva. Misura l’incedere del soggetto col metro della mancanza, del lutto che lo informa sulla differenza dell’oggetto che può soddisfarlo e sull’uso delle sue intrinseche qualità che lo rendono soddisfacente. Nel fare ciò, la speranza non trae la sua ispirazione dal calcolo delle probabilità, dalla previsione razionale del futuro, ma dalla nostalgia. La nostalgia fa del ricordo di un’apertura dell’essere un vissuto del presente, fornisce al movimento verso il non ancora compiuto, conosciuto l’esperienza persistente, significativa di un viaggio personale precedente. Tramite la nostalgia, la speranza fonda la sua proiezione nel futuro nella più intima delle tradizioni.

La consolazione è un inganno. Mentre la speranza convive con la delusione e apprende dalla sofferenza, la consolazione le evita. In questo modo falsa la percezione del mondo e impedisce di farne conoscenza. Trasforma gli oggetti desiderati in oggetti ideali, privi di materia, o autoerotici. Produce anestesia posticipando la soddisfazione all’infinito o trasformando il desiderio in bisogno e la persistenza del godimento in urgenza di scarica immediata. Dilatando il futuro fino ad occupare il presente e il passato o rendendo il presente permanente, rende immobile il tempo e abolisce la percezione della perdita e la sua significazione.

La logica che la sottende, senza farsi riconoscere, è quantitativa: calcola la vita in termini di quantità di tensione e di sollievo. Per cui non sorprende il fatto che l’interpretazione della scienza riducente tutto al calcolo e alla materia dura, svolga un’importante funzione consolatoria, accanto al mercato degli effetti eccitanti/calmanti e alle concezioni spirituali del mondo.

La speranza aspira alla trasformazione, contempla il rischio ed è al servizio di ciò che è vivo in noi. La consolazione abborrisce l’incertezza dei processi trasformativi ed al servizio di ciò che è morto, ostinandosi a vederlo vivo. L’oggetto consolatorio è, di fatto, morto: nega la perdita, e quindi non la può superare, e non è disponibile a un proprio uso reale.

Difendere la speranza che ci mantiene vivi, proteggere la complessità della nostra vita – le sue differenze, sfumature, contraddizioni, incertezze – è il modo migliore per resistere all’oblio consolatorio di noi stessi che ci insidia.