Un risultato pericoloso: troppo scarso per poter essere venduto come successo, ma nemmeno disastroso a sufficienza da imporre un cambiamento alla guida del partito. Così l’editoriale della Süddeutsche Zeitung di ieri fotografa la situazione dei socialdemocratici tedeschi dopo il magro 25,7% rimediato alle elezioni della scorsa domenica, mettendo in guardia la Spd dalla tentazione del tirare a campare. Il timore espresso dalle colonne dell’autorevole quotidiano liberal-progressista è che il gruppo dirigente si occupi essenzialmente del mantenimento degli equilibri interni nella spartizione dei posti-chiave sia nel gruppo parlamentare sia nell’ipotetico prossimo governo federale di grosse Koalition guidato da Angela Merkel.
I primi segnali non sono incoraggianti: Frank-Walter Steinmeier, capogruppo uscente, è stato riconfermato alla guida dei deputati socialdemocratici. Braccio destro di Gerhard Schröder dal 1999 al 2005, poi ministro degli esteri nel successivo gabinetto di grande coalizione, quattro anni fa è stato il candidato cancelliere che condusse il partito che fu di Willy Brandt al suo peggiore risultato di sempre. Invece del benservito, ricevette l’incarico – molto importante nel sistema politico tedesco – di presidente del gruppo al Bundestag. Ruolo nel quale comincerà anche la nuova legislatura, nell’attesa di diventare eventualmente di nuovo il capo della diplomazia e, forse, vicecancelliere.
La Spd non sembra dunque, per ora, intenzionata a fare i conti sul serio con la crisi che attraversa: ciò che più la impegna è blindare il gruppo dirigente. Non ancora chiaro è il destino dell’ormai ex candidato cancelliere Peer Steinbrück, dichiaratosi indisponibile a un ruolo ministeriale in un esecutivo a guida Merkel, ma probabilmente intenzionato a subentrare nel ruolo di capogruppo parlamentare a Steinmeier, nel caso in cui questi diventasse ministro degli esteri. È noto che il segretario Sigmar Gabriel voglia rimanere volentieri al suo posto, e così senz’altro sarà: «o ce ne andiamo tutti, o nessuno», questo il ragionamento.
Diversa la reazione dei Verdi al deludente voto di domenica. Ieri hanno annunciato l’intenzione di farsi da parte sia la co-segretaria del partito, Claudia Roth, sia i due capigruppo al Bundestag della passata legislatura, Jürgen Trittin e Renate Künast. Con Roth e Trittin escono di scena le due figure-guida della corrente di sinistra dei Grünen, esponenti della generazione formatasi politicamente negli anni Settanta. L’altro co-segretario, il 48enne Cem Özdemir, è giunto a conclusioni diverse: «mette a disposizione» il proprio mandato, ma con l’intenzione di ricandidarsi alla guida dell’organizzazione al prossimo congresso.
Determinata a restare nelle prime file anche Katrin Göring-Eckart, che formava insieme a Trittin il duo alla testa degli ecologisti in campagna elettorale.
Alla base delle differenti scelte all’interno della dirigenza del movimento ecologista c’è un motivo politico: Özdemir e Göring-Eckart sono esponenti della corrente moderata – quella dei realos, i «realisti», nel gergo del partito -, che si ritiene esente da responsabilità per il deludente 8,4% rimediato domenica. La colpa del magro risultato – questa è la tesi – è stata tutta del programma «socialdemocratico» voluto da Trittin: proporre l’aumento dell’aliquota fiscale più alta avrebbe allontanato dai Grünen quel voto borghese che gli ecologisti erano riusciti a conquistare negli anni scorsi, in modo particolare nelle ricche regioni meridionali.
«La Germania non è Kreuzberg»: questo il ritornello degli ecologisti moderati che accusano Roth e Trittin di avere tenuto in considerazione solo il tradizionale elettorato verde delle grandi città, schierato a sinistra, perdendo di vista tutto il resto. E purtroppo è vero che la Repubblica federale non è tutta come il quartiere alternativo (anche se non più come una volta) di Berlino: lì i tre partiti progressisti (Spd, Verdi e Linke) hanno totalizzato il 70%, al quale va aggiunto il 6% dei Piraten. La Cdu si è fermata al 15%. Decisamente, la Germania non è Kreuzberg.