La Spagna affronta il suo settimo giorno di stato d’allarme guardando atterrita l’Italia. Il numero di casi cresce vertiginosamente, i pronto soccorso si avvicinano rapidamente al collasso.

I contagiati ufficiali sono 33mila (anche se tutti sanno che sono molti di più: si teme il momento in cui saranno fatti test a tappeto: dovrebbero arrivarne un milione questa settimana, ha annunciato ieri il governo), e i decessi ieri hanno raggiunto i 2200 (metà a Madrid), quasi mezzo migliaio in più rispetto a domenica: il giorno peggiore dall’inizio della crisi.

Gestire questa emergenza si sta rivelando una sfida per i governi di tutto il pianeta, e la Spagna, terzo paese per numero di vittime dopo Italia e Cina, affronta questa settimana con il timore che la situazione stia per sfuggire di mano.

Alcune decisioni indicano il livello di disperazione crescente: la deroga che permette di non aspettare 24 ore per l’inumazione dei cadaveri, il rifiuto dell’agenzia di pompe funebri di Madrid (la città più colpita) di trasportare i deceduti per mancanza di materiale di protezione, l’uso di una pista da ghiaccio della capitale come camera mortuaria, la costruzione «dell’ospedale più grande di tutta la Spagna» nella fiera di Madrid.

Intanto gli ospedali e le comunità autonome si lamentano per l’insufficienza del materiale di protezione come mascherine e guanti.
Nel complesso, la maggior parte dei cittadini sembra rispettare i severi limiti imposti dal governo: divieto di uscire tranne che per alimenti, farmaci, medico, lavoro, portare a spasso il cane e cura delle persone non autosufficienti.

Prova ne sono gli straordinari, e positivi, dati sull’inquinamento delle città: lunedì 16 è stato il giorno con meno inquinamento (misurato con il diossido di azoto) a Barcellona da 20 anni a questa parte, e lo stesso è accaduto a Madrid, dove l’inquinamento si è ridotto a più della metà e il traffico è diminuito del 60%.

A Barcellona il comune ha fatto sapere che il traffico è diminuito del 71% e i passeggeri dei mezzi pubblici sono addirittura il 90% meno. Ma c’è chi teme che le misure di confinamento del governo non siano sufficienti.

Ieri in conferenza stampa il ministro della sanità Salvador Illa si è difeso dicendo che sono le più severe in Europa, ma alcune comunità autonome (fra cui la Catalogna e l’Andalusia) chiedono misure ancora più severe, sulla linea di quelle adottate questa settimana in Italia.

Un gruppo di 70 scienziati ha firmato un manifesto criticando duramente il governo per non aver adottato misure più stringenti. Basandosi su modelli matematici, dicono che il collasso del sistema sanitario arriverà questa settimana e, pur ammettendo che la situazione è migliorata per il confinamento, sostengono che non è sufficiente e che bisogna bloccare tutto il paese, salvo le attività essenziali.

Altri invece non sono sicuri che migliorerebbe davvero la situazione: il danno economico potrebbe rivelarsi enorme. E poi il governo, dicono i critici, esita a imporre il ricovero coatto in strutture private dei malati pur avendone il potere. In alcune comunità autonome, come quella di Madrid, il Partito popolare, che ora chiede a gran voce misure di costrizione più severe, ha fatto a pezzi le strutture pubbliche, regalando ospedali ai privati, e molti attribuiscono a questo parte del disastro attuale.

All’interno del governo il dibattito è molto intenso: da un lato c’è chi vorrebbe imporre limiti di movimento più stringenti, e allo stesso tempo adottare misure di maggiore protezione sociale (come la moratoria degli affitti, oltre che quella dei mutui, e una eventuale forma di reddito di base per i milioni di disoccupati), e chi, come la ministra dell’economia Nadia Calviño crede che le misure di isolamento sono già sufficientemente dure e che è necessario mantenere l’economia a un minimo vitale pensando al difficile dopo-crisi: oltretutto nuove, e care, misure sociali potrebbero indebitare il governo eccessivamente.

Ma è chiaro che la situazione è molto fluida e che i sacerdoti dei dogmi economici neoliberali stanno già arrendendosi alla magnitudine della crisi. Persino l’ex ministro di Rajoy e oggi vicepresidente della Bce Luís de Guindos si apre al reddito di base, che lui chiama “reddito minimo di emergenza” per chi è rimasto senza lavoro. Sic transit gloria mundi (liberalis).