Yukio Mishima, per tutto il corso della sua breve vita, ha fortemente voluto che l’opera venisse declinata alla luce dell’azione, del gesto muscolare, addirittura della postura.

Era ossessionato dalla purezza, dalla cura del corpo, dal rapporto tra erotismo e morte (nel 1955 aveva conosciuto a Parigi Georges Bataille, e si trattò di un incontro per lui cruciale), dal culto del «sole della morte», dalla ricerca di un’ascesi possibile nel secolo che aveva abiurato all’assoluto. Dall’odio per la democrazia e per il materialismo.

Volle indossare i panni di un antico samurai e di un San Sebastiano. Già a vent’anni il suo motto era questo: «Vivere e morire per l’imperatore». Il valore intrinseco della lettera non poteva bastargli, era semmai la parte certo non secondaria di un insieme convulso, tempestoso, nevrotico.

«Il mio stile», affermava, «teneva il petto in fuori come un guerriero» oppure, ancora, in un testo finito di scrivere proprio nell’agosto del 1970, a circa tre mesi dalla morte, ricordava come «nell’attimo in cui la spada viene sguainata si concentra l’essenza della bellezza maschile. La mano sinistra preme con forza sulla guaina, la destra estrae la spada e il petto si protende mentre il braccio con un movimento ampio e possente vibra il colpo mortale all’avversario: quando questi movimenti fluiscono armoniosi come acqua, nello “iai” si manifesta la bellezza degli antichi guerrieri».

Che una simile «filosofia dell’azione» abbia rappresentato il dato aggiuntivo e forse preminente nella storia e nella fortuna in specie postuma di Mishima, pare indiscutibile.

Di colpo divenne un mito

Ma intanto, appunto, lasciamo che siano le date a svelarci un elemento di fatto. Il primo libro tradotto in italiano, La voce delle onde, venne dato alle stampe dall’editore Feltrinelli nel 1961. A seguire, e fino al giorno dello spettacolare suicidio, uscirono Il Padiglione d’oro (’62), Dopo il banchetto (’64), L’amore dell’abate di Shiga (un racconto incluso nel ’65 in un’antologia dedicava ai narratori giapponesi moderni), Il sapore della gloria (’67) e Confessioni di una maschera (’69), il romanzo che esattamente due decenni prima aveva segnato l’esordio dello scrittore ancora giovanissimo, appena ventiquattrenne.

Queste opere furono accolte dalla critica e dal pubblico dei lettori (parliamo dell’Italia) con una certa curiosità, mentre l’interesse e la partecipazione che suscitarono non si possono certo definire eclatanti.

Anche la stampa di estrema destra non si curava di assumerlo nel proprio pantheon culturale, pubblicato com’era sotto l’egida di un editore di sinistra.

Fu, dunque, dopo la clamorosa messa in scena del suicidio rituale che Mishima divenne di colpo tutt’altro che un esile mito. Quell’evento indusse molti alla lettura o alla rilettura dei romanzi e il fascino – chiamiamolo pure così – dell’autore si allargò a dismisura e in più direzioni.

Da un lato, finì presto per segnalare un solco profondo o, ancora meglio, una linea di demarcazione simbolica, vale a dire la fine di qualcosa di attinente alla letteratura stessa, più precisamente al romanzo e al suo destino futuro, come se quello di Mishima fosse un corpo mistico ed eucaristico: il sangue versato la mattina del 25 novembre a Tokio, quando – dopo avere arringato un migliaio di militari via via sempre più irridenti e sghignazzanti – si tolse la vita facendo harakiri insieme al camerata e amante Morita.

Dall’altro lato, in Italia e in tutta Europa, diventò fin da subito l’icona perfetta del sacrificio supremo gettato in faccia all’abominevole modernità in nome dei valori spirituali chiusi nel cuore di una tradizione umiliata e vilipesa.

Era, ancora una volta, il mito della bella morte ad affacciarsi con prepotenza sul palcoscenico del mondo. Era la nobiltà della sconfitta (secondo il titolo del celebre libro di Ivan Morris del 1975) a urlare contro il vento sordo e cieco della storia la rivolta ideale di chi non si rassegnava a smettere di cavalcare la tigre dell’eroismo.

Ad ogni buon conto, fu quella morte – o, secondo alcuni, quell’osceno spettacolo – a trasfigurare la vita e le opere di Mishima, rimontandole secondo una sequenza nuova e insieme definitiva. Lo scrittore con indosso la divisa da lui stesso disegnata per la Società dello Scudo, il suo esercito privato composto da un centinaio di giovani adepti, che legge un proclama in un clima di generale dileggio, il braccio piegato verso il volto, il pugno serrato, una fascia bianca a bendargli la fronte – ecco, furono gli attimi estremi di un quadro nel complesso patetico, velleitario e quasi grottesco a trasformarlo in un culto reazionario. Nel sangue di quell’immaginario samurai esausto e al tempo stesso irriducibile e incurante del ridicolo, molti finirono per ungersi come se si trattasse di olio santo.

Ma pure, se si osserva con attenzione: non la bellezza bensì l’ottusità della tradizione sembra stampata in quel volto così contratto a pronunciare parole già a quell’altezza prive di senso, irrelate da ogni concretezza, contro la perdita dello «spirito nazionale» e la «condizione di vuoto» del presente e a difesa dell’«onore» e dell’«esistenza dello spirito».

La forza del passato, lì, in quel giorno di mezzo secolo fa, mostrava il suo lato sterile e banalmente normativo. Non dolore e desiderio, perciò, ma ardimento e debolezza.

Com’è noto, il pittoresco abolisce il tragico. Per questa ragione la portata-Mishima si è trasformata in una minestra buona per ogni palato e la sua immagine in una consolatoria, innocua effigie sentimentale, in un simbolo e soprattutto in un sintomo di impotenza e di svilimento – e inoltre, ciò che più conta, persino lo stile dello scrittore rivelò di schianto, in uno iato irrisolvibile, la propria cifra di immaturità piccolo-borghese (un’immaturità assai diversa, va sottolineato, da quella teorizzata da Gombrowicz), ottima bevanda per la sete di lettori protettivi, bisognosi di reticenza e di non rischiosi rispecchiamenti.

Fissazione dell’adolescenza

Si potrebbe chiamarla anche fissazione all’adolescenza. Sia Henry Scott Stones nella sua Vita e morte di Yukio Mishima, sia Marguerite Yourcenar nel celebre e bellissimo saggio del 1981 Mishima o La visione del vuoto, d’altronde, parlano ampiamente di questa nevrosi diventata dapprima ideologia e infine una vera e propria poetica.

Di un tale sentimento, di un tale dissidio si ritrovano molti esempi clamorosi nei suoi scritti non narrativi, ad esempio nella lunga intervista con il critico di estrazione marxista Takashi Furubayashi (Le ultime parole di Mishima, 1972), laddove lo scrittore dice tra l’altro: «In fondo la debolezza basta lasciarla così com’è. Oggi piuttosto siamo in un’epoca in cui è la forza a essere maltrattata. Mai come in questo tempo la forza è stata denigrata, l’etica di coloro che cercano di essere forti è stata disprezzata. E io non riesco a pensare ad altro che alla rinascita della forza».

O ancora: «Penso che alla fine penna e spada non possano essere divise». E infine, in Sole e acciaio (1968): «L’immaginazione e il maneggio della spada, in quanto tecniche nutrite dalla familiarità con la morte, erano identiche».

Ci sembra che proprio in questa tensione irrisolta tra penna e spada (gli oggetti su cui si imperniano le due parti di un libro di Christopher Ross del 2006) risieda il lascito più rilevante di Mishima, il nodo gordiano che nemmeno l’atto finale del seppuku (che lo scrittore definiva come la «masturbazione estrema») riuscì a sciogliere.