C’è stato un tempo in cui intraprendenti mercanti si mettevano in viaggio per raggiungere posti lontani per poi tornare carichi di merci pregiate da vendere. Nei loro diari, novelli tripadvisor, descrivevano i percorsi, le tappe, i luoghi dove pernottare e mangiare, ma anche le insidie, i pericoli, i pedaggi da pagare. Un lettore de Il milione di Marco Polo ricorda sicuramente che anche il mercante veneziano annotava notizie e commenti sui paesi che scopriva. L’esotismo svolge un ruolo centrale in quel libro, ma rilevanti sono invece le riflessioni politiche, sociali, financo antropologiche che Marco Polo – o chi per lui – fa delle realtà incontrate. Il suo diario è da considerare una vera e propria Odissea della merce. Eppure con quel libro, l’espressione «via della seta» perdeva il sapore esotico che l’accompagnava per diventare l’esempio della prima gestione logistica del territorio che faceva proprie le compatibilità politiche – e la logica di potenza – nei rapporti tra imperi e sovranità non ancora statali.

NEL TEMPO, nonostante guerre, invasioni, l’espressione ha perso il suo fascino per poi essere dimenticata, tag di un passato definitivamente archiviato. Poi, quasi inaspettatamente è tornata a imperversare nella scena pubblica dopo la presentazione dell’ambizioso progetto di Pechino per organizzare un efficiente e veloce sistema di spostamento di merci dalla world factory al resto del mondo, e dal resto del mondo al paese che ambisce a diventare la prima superpotenza economica. È l’esempio di come la logistica sia ormai una componente fondamentale delle «catene di valore» che accompagnano il capitalismo contemporaneo.
Ne scrivono diffusamente due recenti libri, scritti da un filosofo della politica e un filosofo della Rete che vivono a migliaia di chilometri di distanza, accomunanti tuttavia dalla convinzione che la logistica non può essere considerata solo come il mezzo ottimale, e più economico, per collocare le merci sul mercato, ma indispensabile architrave di quello che entrambi chiamano il capitalismo supply chain, cioè quella totalità che vede interagire e compenetrarsi produzione, distribuzione, consumo. E finanza.
Gli autori sono l’italiano Giorgio Grappi (il titolo del suo libro è un austero Logistica, Ediesse, pp. 265, euro 12) e l’australiano Ned Rossiter (il titolo del suo saggio è Software, Infrastructure, Labor, Routledge). Il primo è filosofo della politica alla sua prima opera, il secondo è un media theorist che ha pubblicato un importante testo sulla filosofia della Rete (Organized Networks, edito in Italia da manifestolibri).

LA PRIMA CURIOSITÀ è: perché un filosofo della politica si è occupato di logistica? La risposta è semplice e l’autore la documenta efficacemente nel suo libro: la logistica, parte rilevante del capitalismo supply chain, esercita un potere nel ridefinire l’esercizio della sovranità sui territori, accompagnando i mutamenti della forma-stato e l’emergere di una governance delle forme di vita a livello sovranazionale. Dunque, modifica i sistemi politici (in India, la democrazia rappresentativa diventa carta straccia in regioni del paesi a causa della militarizzazione del territorio finalizzata alla «messa in sicurezza» delle infrastrutture), introduce metamorfosi nelle relazioni interstatali, con una «cessione» della sovranità alle imprese. Quel che emerge dal libro è dunque una materia che dovrebbe interessare proprio la filosofia della politica.
La seconda curiosità investe poi lo stesso statuto della logistica: da strumento usato inizialmente per spostare truppe militari (con il corollario di alimenti, tende, armi e munizioni) è divenuto uno dei settori economici più importanti, e tuttavia meno studiati, dell’economia mondiale? Anche qui la risposta è semplice: perché la produzione di merci è dislocata su luoghi e continenti diversi.

I MICROPROCESSORI possono essere prodotti in Cina, poi sono spostati negli Usa per essere assemblati, in attesa che arrivino altri componenti da altri luoghi. Alla fine dagli Usa, ma potrebbe essere Taiwan, Thailandia, Italia, devono essere velocemente, quasi just in time dirottati là dove saranno venduti o nelle case dei consumatori. Il tempo che intercorre dalla produzione alla vendita di una merce deve infatti essere compresso all’inverosimile. Inoltre le vie che seguono i componenti, chiamati corridoi, prevedono una trasformazione radicale della morfologia del territorio.
La terra è espropriata per grandi opere, gli abitanti deportati, il corso dei fiumi alterato radicalmente (Cina e India, sono in questo caso veri e propri case studies), provocando resistenze e rivolte della popolazione che vengono represse con violenza dall’esercito, provocando la militarizzazione del territorio e una sospensione della democrazia nelle regioni coinvolte, come più volte ha denunciato la scrittrice indiana Arundhati Roy.

Giorgio Grappi si sofferma sulla recente storia della logistica «moderna». Ne ricorda la genesi militare – anni Cinquanta e Sessanta del Novecento – parla della rivoluzione rappresentata dai container e delle innovazioni indotte nel sistema dei trasporti su rotaia e via mare, ma quello che è centrale nel suo libro è l’analisi di come la logistica serva a gestire il rischio di una paralisi nella circolazione delle merci, la sua efficienza – la «razionalità della logistica», secondo il ricercatore italiano -, ma anche quel movimento in divenire che altera e ricompone le gerarchie di potere tanto nel rapporto tra gli stati che all’interno della società.
La logistica è allora un fattore fondamentale dello sviluppo capitalistico, perché non solo opera nel ridisegno della sovranità nazionale, ma anche delle forme di vita, del rapporto tra le classi. È quindi di un fattore di gestione di quel doppio movimento tra diffusione spaziale della produzione – decentramento e outsorcing del processo lavorativo – e accentramento delle strutture decisionali, che hanno nello Stato un fattore non residuale, bensì funziona come un nodo esecutivo di una sovranità imperiale che forza, viola continuamente i confini nazionali.

Le suggestioni sulla costituzione di un Logistical State o di un Logistical Empire (ed è qui che la Cina svolge un ruolo primario con il suo progetto sulle nuove «vie della seta») sono usate in entrambi i libri con molta cautela. Grappi scrive che la presenza di un «Leviatano logistico» ha il pregio di esemplificare non un processo finito, stabilizzato, bensì una tendenza, sottoposta a correzioni nel suo divenire. Il Logistical State è dunque da considerare un obiettivo che vede lo stato e le imprese soggetti alla pari di un progetto che ha sulla sua strada quell’imprevisto che è il lavoro vivo, la sua composizione, le soggettività che si esprimono dentro il settore della logistica.

ALTRETTANTO CONVINCENTI e belle sono le pagine di Ned Rossiter sul ruolo svolto dalla computer science nella logistica. Geolocalizzazione, smartphone, dispositivi per la lettura dei codici a barre, reti informatiche non hanno qui lo stesso sapore che hanno nella Rete. Nella logistica c’è ben poco software aperto: gran parte è proprietario e prevede forti e ingenti investimenti, dato che la costituzione di un sistema integrato prevede programmi informatici molti sofisticati che si avvalgono anche di elementi tratti dagli studi sull’intelligenza artificiale, fibre ottiche, satelliti, robot, tablet, smartphone, rilevatori e identificatori numerici. Ovvio che la proprietà intellettuale la faccia da padrone. La logistica privilegia cioè un business model differente da quello dominante nella comunicazione on line (software aperto e gratuità dell’accesso alla Rete in cambio della cessione dei propri dati personali). Anche se punti di contatto ce ne sono, come quello svolto dalla finanza: le assicurazioni sulle navi e sui carichi, nonché un articolato legame tra borsa, venture capital e banche hanno un ruolo di stabilizzazione, di gestione del rischio, come avviene, certo con altre specificità, nella Rete.

NED ROSSITER si concentra inoltre su come questo modello punti a plasmare anche il lavoro vivo, le sue forme di vita e di socializzazione. Rilevante è anche il tema introdotto delle logistical city, luoghi cioè dove si concentrano la raccolta e lo smistamento delle merci spesso localizzate ai margini delle metropoli, ma che hanno il potere di condizionare lo sviluppo urbano di intere regioni, come emerge nel godibile capitolo dello smaltimento e riciclo dei componenti elettronici.
Difficile immaginare uno sviluppo diversificato di questo dispositivo. I due studiosi fanno un convincente esercizio di ottimismo della ragione, accompagnato però da un pessimismo della volontà, contraddetto dalle mobilitazioni nella logistica che hanno caratterizzato il settore negli ultimi anni, sia che si tratti dei portuali negli Stati Uniti o in Germania che i facchini del distretto italiano della logistica. Una smentita che rallegra, c’è da scommettere, entrambi gli autori.

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Scheda. Le catene globali del valore

Il capitalismo «supply chain» è un’espressione, tra le tante usate per indicare i mutamenti di questo modo di produzione, che indica la centralità delle «catene del valore» per garantire la tenuta dei margini di profitto in una realtà altamente competitiva come è quella dell’economia globale. Interessante è così il volume da poco nelle librerie della economista Lidia Greco («Capitalismo e sviluppo nelle catene globali del valore», Carocci editore). Elaborato all’interno di una griglia dello sviluppo diseguale come fattore fondamentale del capitalismo, il saggio passa in rassegna le innovazioni organizzative che hanno investito, negli ultimi decenni, proprio le catene del valore.