Mai nome di bicicletta poté essere più distante dall’animo di chi la cavalcava. Il secondo velocipede importante della mia vita si chiamava, anzi si chiama perché sonnecchia ancora nel garage della mia casa d’origine, Sovrana e accompagnò la mia adolescenza. Lei era ambiziosa, io insicura. Lei era argentea e algida, io un tumulto di passioni confuse. Lei, con quella canna ricurva, era coquette, io non sapevo nemmeno dove stesse di casa la civetteria. A differenza della Bianchina rossa, non fu una sorpresa. Avevo più o meno tredici anni quando me la regalarono e fui coinvolta nella scelta. Non volli lei perché mi piaceva più delle altre, ma perché quello offriva il mercato e le nostre tasche. La moda del momento voleva abbandonare la tradizione e anche le biciclette cambiarono linea, adeguarsi ai gusti moderni. Quel nome pomposo, Sovrana, avrebbe dovuto darmi stimoli e sicurezze, invece fu la compagna delle mie prime, grandi inquietudini.

La bianchina rossa della prima infanzia era stata abbandonata da tempo, da quando le mie gambe erano diventate troppo lunghe per cavalcarla. Fra lei e la Sovrana ci fu interregno durante il quale usai una bicicletta di terza mano che doveva servire giusto in attesa che la mia crescita fosse abbastanza definitiva. Allora si faceva così con gli oggetti che dovevano durare nel tempo. Se si poteva, si riciclava per non buttare denaro in qualcosa che avrebbe avuto vita breve.

Quando la Sovrana arrivò, e sempre per la questione che bisognava guardare in avanti, era leggermente alta per me, ma poiché mai nella vita sarei andata in giro con dei legnetti attaccati ai pedali, come era successo con la Bianchina rossa, per i primi due anni pedalai con la punta dei piedi e quando dovevo fermarmi inclinavo la bicicletta di lato. Non era la cosa più comoda della terra, però mi adattai senza troppi problemi. La Sovrana non aveva cambi ma un solo registro, tanto si doveva andare soltanto sul piatto, e poi il mio scopo non era diventare una Gimondi in gonnella, ma avere uno strumento per potermi spostare in relativa autonomia dalle brugle in cui si abitava. Se la Bianchina era stata la bicicletta della scoperta e dell’andirivieni verso l’asilo, se la due ruote di seconda mano mi aveva accompagnato ogni giorno verso la scuola elementare, una straordinaria pluriclasse che distava solo un chilometro da casa e dove mi sono divertita da matti a convivere con compagni più grandi di me che mi sembravano grossi come vitelli, la Sovrana divenne la compagna delle perlustrazioni saltuarie del territorio. Gli anni delle scuole medie erano stati un interregno anche negli spostamenti perché, trovandosi nella cittadina a sei chilometri da casa, ci andavo con il pullmino giallo del comune. Erano finite da tempo le scorribande attorno al cortile, le gare con la velocità e la spensieratezza. Adesso bisognava studiare, impegnarsi, costruirsi il futuro, diventare concreti, come diceva mia madre che, come me, si trovava schiacciata dagli obblighi.

Benché mi assomigliasse molto poco, in quel contesto la Sovrana si trasformò in un’amica saltuaria e fidata. Tempo per stare assieme ne avevamo pochissimo ed era tutto concentrato nei mesi estivi. Era però un tempo assoluto, tutto nostro, fatto di me e di lei perché lì non avevo amiche, non c’era nessuna compagna con cui condividere parole, confidenze, pensieri. Quando un adolescente vive in campagna e non ha suoi simili con cui confrontarsi, diventa uno spettatore solitario del mondo, guarda e pensa, ascolta e si ritira, medita e sogna. Se poi sei femmina e non hai la stessa libertà riconosciuta ai maschi, osservare e leggere sono boe a cui ti aggrappi in modo famelico. E poi ti abitui a stare da sola. In quegli anni imparai che essere da soli in bicicletta è molto più liberatorio che stare soli e fermi.

Quando l’afa e il sole schiaccianti mollavano la morsa, prendevo la Sovrana e dicevo «Vado a fare un giro». Ora, uno pensa che in campagna sia facile passeggiare a piedi o in bicicletta. Niente di più sbagliato. I contadini non hanno mai costruito il loro territorio per gli ozi, ma per lavorarlo e ricavarne raccolti. Fra i campi non ci sono sentieri per camminare, ma fossi da irrigazione e carraie che servono ai trattori. Gli argini dei fiumi non sono pensati per percorrerli guardando il paesaggio, ma per contenere le acque e a nessuno veniva in mente di segnarvi sopra un sentiero, nemmeno di terra battuta. Se io e la Sovrana volevamo muoverci, avevamo due scelte: o la strada provinciale che portava alla cittadina, o le stradine che si perdevano fra i campi e seguivano i confini dei terreni. Nel primo caso, essendo arrivata la modernità e quindi le auto e i camion, si rischiava la vita per le seguenti ragioni: la strada era stretta e piena di curve, da un certo punto in poi bisognava condividerla con il traffico che usciva dall’autostrada, chi aveva steso l’asfalto aveva lasciato ai bordi uno spessore alto dieci centimetri, una specie di piccolo precipizio che, se ci finivi dentro con la ruota, o cadevi nel fosso o sulla strada. Nel secondo caso c’erano la tranquillità assoluta e un paesaggio piatto interrotto da case coloniche così rare che sembravano tirate con la fionda. Siccome non volevo morire giovane, la seconda opzione divenne la mia preferita. Mentre il resto del Paese e del mondo erano scossi dai movimenti nati nel Sessantotto e dal femminismo, io percorrevo sulla bicicletta dal nome pretenzioso stradine che segnavano i confini fra i poderi dell’Americano, così chiamato perché si era costruito una villetta piena di pinnacoli e balconcini, i Sèngar, che avevano ammassato nel cortile immoltato i resti arrugginiti di una quantità di macchine agricole, i Musòn, che vivevano in una casa aggredita dall’umidità, e via dicendo. Il peggio che poteva capitarmi, e capitò, era di essere rincorsa da un cane abbaiante che sbucava da qualche cortile. Non è una bella esperienza.

Lì imparai che dietro l’ameno può nascondersi una bestia poco socievole e hai solo due scelte, o la eviti, o corri più veloce di lei. Imparai a sfrecciare quasi come Gimondi in prossimità dei cagnacci. Dopo, mi divertivo a infilarmi in stradine che non conoscevo e che non sapevo dove portavano. Mi fermavo a guardare le case abbandonate e mi divertivo a immaginare come le avrei sistemate. Osservavo i piccoli segni di cura come la portulaca o le rose attorno alle case. Intuivo il disamore da come tenevano il cortile sul retro, vicino alla letamaia. Imparai a leggere le velleità o la povertà di immaginazione dal tipo di infissi, se c’era o no una presenza femminile da come era stesa la biancheria.

Quando non c’era nulla di nuovo da osservare, pedalavo, guardavo l’orizzonte piatto e pensavo. Pensare mentre pedali è un lusso che ti puoi permettere solo sulle strade basse e poco battute della pianura padana. Mentre alleni le cosce e i polpacci fai lavorare anche l’immaginazione. Capisci che dopo una strada ce n’è un’altra, che dietro una svolta c’è un bivio inaspettato e puoi scegliere, che curva dopo curva puoi andare verso l’ignoto, che l’orizzonte non finisce mai. Ma, soprattutto, impari che ci saranno sempre un campo, una pianta o un cane a ricordarti che solo davvero non lo sei mai. In quegli anni di solitudine cominciai anche a fare un sogno che arrivava regolare. Percorrevo sulla Sovrana strade deserte e a un certo punto mi prendeva una smania. Cominciavo a correre veloce, sempre più veloce finché la bicicletta si staccava da terra e io cominciavo a volare, e per salire e restare lì in alto dovevo pedalare veloce, sempre più veloce, ancora più veloce. Se avessi smesso sarei scesa con le ruote per terra e non lo volevo. Nel sogno si mischiavano il piacere del volo e la paura di perderlo, il desiderio e l’angoscia, le possibilità dell’alzarsi e il pericolo di restare a terra. Alla fine, quando mi svegliavo, mi restava dentro soprattutto un’immagine: che il cielo era lì, a portata di pedali e di gambe.

2.continua