Due giovani corpi adagiati su una lastra di roccia scura in riva al mare, in un luogo sperduto, l’antica baia di Kashii, in Giappone. Un uomo e una donna esposti al freddo di gennaio, immobili a parte le punte dei capelli e i lembi delle vesti scossi dal vento. Il poliziotto condotto sul posto dalla persona che ha scoperto la coppia pensa subito a un doppio suicidio. Il medico legale, giunto poco dopo, conferma, intuisce dal colorito delle guance che i due hanno assunto del cianuro. L’ipotesi del suicidio d’amore appare così consistente che un senso di delusione aleggia tra gli agenti. «Senza un crimine non avevano un bel niente da fare. In altre parole, non c’era bisogno di cercare un colpevole» commenta pleonastica la voce narrante del romanzo in cui si descrive il macabro ritrovamento: Tokyo Express di Matsumoto Seicho (Adelphi, traduzione di Gala Maria Follaco, pp. 175, € 18,00).

Una questione di orari
Ovviamente, trattandosi di un romanzo e per di più di un giallo, l’apparenza non è che una premessa da smentire. Del resto, non è raro che la buona narrativa poliziesca si spinga ben oltre l’individuazione di colpevoli là dove sembra che non ve ne siano. Spesso, smascherando un delitto perfetto, il buon giallo mostra fatalmente le imperfezioni di una società, perché una società dove si uccide – e nessuna società finora si è rivelata immune da un simile inconveniente – esistono gioco forza crepe e storture, qualcosa che incrina gli equilibri fino al punto di indurre un essere umano a sbarazzarsi in maniera definitiva di un proprio simile.

Non è dunque un caso se la soluzione del romanzo di Matsumoto ruoti attorno a un problema di orari e di treni. Stazioni e mezzi di trasporto di massa incarnano come meglio non si potrebbe l’irreggimentazione che ispira la società giapponese, tanto che da sempre ciò che si muove sulle strade ferrate è oggetto di un vero e proprio culto. Osservare i treni è un’attività praticata con una dedizione paragonabile a quella che in occidente si riserva al birdwatching. Una particolare ossessione viene rivolta, come è facile intuire, agli orari e alla puntualità dei treni.
L’infallibilità della macchina ferroviaria è molto più che un vanto nazionale; è il simbolo della vittoria umana sul caso, una fonte di stabilità e sicurezza, la conferma che la vita può essere regolata, prevista al secondo. Possono certo verificarsi disastrose eccezioni, deragliamenti effettivamente avvenuti perché il conduttore procedeva a velocità folle per recuperare il ritardo di un minuto e mezzo, ma sono scalfitture momentanee che non intaccano il disegno complessivo.

Da principio, neanche le strane incogruenze che emergono dal ritrovamento dei due cadaveri in Tokyo Express sembrano smentire le apparenze di un ordine già stabilito. Il caso imbocca un iter che porterebbe diritto all’archiviazione, non fosse per alcune coincidenze che lo legano allo scandalo nel quale è coinvolto un ministero e soprattutto per l’ostinazione di un paio di ispettori. Nel giro di poco emerge che in effetti di crimine si tratta, e con tanto di colpevole. Tutto ruota attorna alla capacità della moderna tecnologia di abbattere in misura importante le distanze spazio-temporali, capacità che offre all’assassino l’opportunità di far credere l’impossibile, ovvero di essere ubiquo. Tokyo Express è uno di quei gialli in cui il mistero non è tanto chi sia l’assassino – cosa che risulta presto chiara anche al lettore meno avveduto – quanto nell’inchiodarlo sulla scena del delitto al momento giusto.

La complessità degli incastri è tale che il romanzo offre in appendice una mappa del Giappone e la precisazione che «gli orari dei treni e degli aerei menzionati nel testo corrispondono a quelli in vigore nel tretaduesimo anno Showa» ovvero nel 1957, che è poi anche l’anno precedente alla pubblicazione in volume del giallo stesso.

Parliamo dunque di un periodo molto significativo, il secondo dopoguerra, in cui il paese si risollevò dal trauma della sconfitta e conobbe, come l’Italia, un boom economico che fece gridare al miracolo. Proprio in quegli anni i romanzi polizieschi conobbero una popolarità fino ad allora sconosciuta in Giappone.
Il genere era stato importato negli anni Venti da Edogawa Rampo in una forma molto diversa, ispirata alle derive fantastiche di Edgar Allan Poe dal quale Rampo attinse il suo pseudonimo. Sotto molti aspetti anche la sua opera dava conto dei profondi mutamenti in atto nel paese, ma è solo con Matsumoto che la modernità ha fatto irruzione nel poliziesco parlando di problemi prima sconosciuti: l’alienazione, la corruzione, l’urbanizzazione vertiginosa e incontrollata.

Del resto, prima di approdare alla letteratura di genere, Matsumoto era stato un attento e critico osservatore della realtà, aveva studiato la criminalità per come effettivamente si manifestava e si era occupato di questioni storiche e politiche le più varie, non ultima quella dell’occupazione americana seguita alla guerra. In virtù di tutto ciò, oltre a essersi guadagnato il titolo di Simenon del Sol Levante, Matsumoto viene considerato l’iniziatore di un sottogenere nuovo chiamato shakai-ha, la scuola sociale, dove a dominare non sono più il mistero e i colpi di scena, bensì le motivazioni dei personaggi, il ruolo che questi occupano nella società e le procedure investigative.

Simmetria classista
A questo proposito, c’è da dire che Tokyo Express è costruito su una serie di dualità. Un doppio suicidio che nasconde un caso di doppio omicidio, svelato grazie a due accurate analisi sugli orari dei treni; una per confutare l’alibi del sospettato, l’altra per stabilire l’ora dell’omicidio. Due sono inoltre gli investigatori. Un ispettore di lungo corso, dai vestiti logori e la cravatta spiegazzata, e uno alle prime armi che arriva sul luogo del delitto da Tokyo. L’anziano opposto al giovane, la dimensione quieta della provincia sperduta opposta al turbolento mondo metropolitano.

Questa e altre dicotomie pur conferendo al romanzo una elegante simmetria non possono spiegarsi soltanto in termini di forma. Servono infatti a individuare i punti di frizione di una complessa macchina sociale altamente gerarchizzata, divisa per classi, tra subordinati e superiori, una macchina dove tutti dipendono da qualcuno o da qualcosa e dove il gesto individuale diventa sospetto se non rientra in un preciso schema, incluso quello definitivo di togliersi la vita. «Un suicidio è più credibile se si è in due» considera non per nulla uno degli ispettori. «Se ci si uccide soli c’è sempre il rischio che qualcuno pensi a un omicidio».