Zvia è una donna devota. Ha quattro figli che non seguono propriamente quello che lei gli ordina di fare. Ha un marito religioso, spesso assente, che dedica tutto il suo tempo ai testi sacri, che ha una figlia prediletta, che è sempre stanco, e soprattutto che è poco propenso a notti d’amore e a contatti fisici. Zvia ha dei desideri, dunque, che restano tali, che non trovano soddisfazione. Zvia tiene sempre in mano tabacco, cartine e accendino per fumare una sigaretta dopo l’altra.

Combatte una piccola battaglia impari con un topo, cucina e tiene in ordine la casa che sorge in un luogo particolare. La sua dimora, infatti, è posta sul confine di un cimitero ebraico presso il Monte degli Ulivi con la vista panoramica di Gerusalemme. Un luogo simbolico che rimane tale, perché se visivamente alimenta suggestioni spirituali e riflessioni trascendenti, nella realtà sembra rappresentare il grado zero della vita, e non per la presenza delle tombe. Anzi, quelle testimoniano l’esistenza di qualcosa che è stato, sono la traccia di un’eredità, anche senza un testamento scritto.

Il fatto è che né Zvia, che pure si aggira tra i sepolcri e legge i libri di una poetessa là sepolta, né altri, sono in grado al presente di colmare la distanza con il non ancora, in altre parole con il futuro.
Mountain, film d’esordio della regista Yaelle Kayam, co-produzione israeliana danese (con il supporto del TorinoFilmLab nel 2012), in concorso nella sezione Orizzonti, che si candida al Premio De Laurentiis per la miglior Opera Prima dell’intera Mostra veneziana, racconta la dissoluzione delle relazioni e lo svanire di ogni prospettiva. Sia privata che pubblica.
La famiglia è percepita in modo sempre più ostile. E fuori dalle mura domestiche solo un operaio palestinese sembra dare un po’ di sollievo alla irrequietezza di Zvia.

Per il resto, una distrazione alla progressiva solitudine della donna viene offerta in modo inaspettato da un gruppo di papponi, prostitute e clienti, che la notte interrompono la quiete opprimente del cimitero.
La donna inizierà a cucinare per loro. Ma alla domanda sul perché lo faccia, non saprà rispondere.Come d’altro canto, lei israeliana si relaziona con l’operaio palestinese, così per caso, senza l’intenzione precisa di contravvenire ai rigidi ordini del marito che le proibisce di parlargli, o più in generale di ribellarsi agli orrori di un conflitto insensato. Zvia non si fa promotrice di un modo diverso.
Anche perché dovrebbe identificare prima quello dove vive ora, ma ne ha perso le tracce.

Non è in grado di delimitarne i confini. Lei e il mondo sono entità separate, verrebbe da aggiungere irrimediabilmente. Mountain esibisce un tipo di dolore di cui si è persa l’origine.
Pur con delle evidenti differenze, il progredire del dramma ricorda un altro film presentato a Orizzonti due anni fa, Medeas di Andrea Pallaoro. Si potrebbe alludere a uno sfondo storico politico, a uno di tipo religioso, a uno di ordine sociale, a uno psicologico. In realtà niente di tutto questo si pone con certezza alle spalle di Zvia. Il suo disperato camminare tra le tombe non porta da nessuna parte.
Ed è per questo motivo che il film risulta più inquietante di quelli che spiegano per filo e per segno cosa stia accadendo e perché, e quando, e come…L’umanità dispersa di Mountain sta esattamente sul versante opposto rispetto alla pluralità in movimento vista per esempio in Jackson Heights di Frederick Wiseman. Due opere sul contemporaneo che messe a confronto mostrano senza impartire lezioni, la vita e la morte, le relazioni e le solitudini radicali.